Dizionario della gente di Lozzo - La parlata ladina di Lozzo di Cadore
dalle note del prof. Elio del Favero - a cura della Commissione della Biblioteca Comunale
prefazione del prof. Giovan Battista Pellegrini
Comune di Lozzo di Cadore - il seguente contenuto, relativo all’edizione 2004 del Dizionario, è posto online con licenza Creative Commons attribuzione - non commerciale - non opere derivate 2.5 Italia, il cui testo integrale è consultabile all’indirizzo http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/2.5/it/legalcode. Adattamento dei testi per la messa online di Danilo De Martin per l’Union Ladina del Cadore de Medo. Per ulteriori approfondimenti è a disposizione la home page del progetto “Dizionario della gente di Lozzo” alla quale si deve fare riferimento per le regole di trascrizione fonetica utilizzate in questo progetto. Il presente file è pre-formattato per la stampa in A4.
-----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
l art. det. (pl. i, f. la, pl. le) il, lo, la, i, gli, le. L bósko il bosco; l ài l'aglio; i lìbre i libri; la màre la mamma; le fìe le figlie; l ànema l'anima. Al maschile singolare si preferisce usare al; al pàre il padre, al fiól il figlio, al nòno il nonno (v. al, tabella articoli).
l pron. pers. (pl. i, f. la, pl. le) lui, lei, esso, essa. L pàrte alòlo parte subito; i pàrte alòlo partono subito; la pàrte alòlo lei parte subito; le pàrte alòlo partono subito. Nella forma interrogativa questi pronomi subiscono alcune trasformazioni: làvelo? lui lava?; làvela? lei lava?; làveli loro lavano?; làvele? loro lavano? (v. al, tabella pronomi).
la art. (pl. le) la, le (v. art. l, al, tabella articoli).
la pron. pers. (pl. le) essa, esse (v. pron. l, al, tabella pronomi).
là3 avv. di luogo lì, là. Béte là metti là. Numerose sono le locuzioni avverbiali: ka e là qui e là; là su lassù, là sóte là sotto, là dó laggiù. Là ìnte là dentro e là fòra là fuori vengono usati per indicare la posizione lungo la valle, a monte o a valle di Lozzo. Èse pì de là ke de kà essere in pericolo di vita; escl. là mò, ecco, ecco fatto, ben ti sta, così impari. L'avverbio là unito agli altri avverbi su, dó, ìnte, fòra, via viene normalmente usato con significato diverso a seconda che sia posto prima o dopo: lo si pone per primo quando si vuole indicare un luogo ben definito: là su, là dó lassù, laggiù, nel posto che ho appena detto; si usa invece posporlo per indicare un luogo pittosto indeterminato: su là da qualche parte lassù; fòra là verso Domegge, non si sa esattamente dove (v. kà).
làda sf. (pl. làde) mannaia grande e larga col manico lungo. Questa mannaia viene adoperata soprattutto per squadrare le travi; par skuarà polìto i tràve, okóre la làda per squadrare bene le travi ci vuole la mannaia grande (v. manèra làda, skuarà).
ladarón agg. (pl. ladarói; f. ladaróna, pl. ladaróne) lazzarone, monellaccio. To fiól l e n ladarón, l me skorsonéa sènpre le pìte tuo figlio è un lazzarone, si diverte sempre a spaventare le mie galline (v. laśarón).
ladìn agg. (pl. ladìn, f. ladìna, pl. ladìne) svelto, manesco, fig. scorrevole. Ladìn de lénga loquace e offensivo; loc. èse ladìn de màn essere facile di mano, essere manesco; to fiól e sènpre stòu n ladìn tuo figlio è sempre stato un tipo manesco.
làdo sm. (pl. làde) piccola mannaia dalla lama grossa e lunga. Èi ànke o n manaruó làdo ho anch'io una scure dal manico piccolo e dalla lama grossa e lunga. È un attrezzo fatto come la manèra làda, sia il manico che la lama sono però più piccoli, e veniva usato per piccoli lavori nella costruzione dei tabiàs o della riśina ecc. (v. làda).
làdo agg. (pl. làde, f. làda) largo. L'aggettivo vine usato solo nei composti manaruó làdo e manèra làda dove significa appunto largo (v. manaruó, manèra).
ladó avv. laggiù. Vàrda ladó, dó n te l ğòu, e to pàre ke tìra tàe guarda laggiù, giù nel canalone, c'è tuo padre che trascina i tronchi (v. la).
ladrarìa sf. (pl. ladrarìe) furto, rapina, di solito in senso figurato. Késta e na ladrarìa è un prezzo eccessivo, è un furto.
làdro agg. (pl. làdre, f. làdra) ladro. Kel là e sènpre stòu n làdro quello è sempre stato un ladro; làdro patentòu ladro patentato; te somée n làdro sembri un ladro; làdro matrikolòu ladro matricolato (letteralmente matricolato significa registrato, di fatto viene usato solo come appellativo minaccioso); prov. pài làdre no e seradùra ke téñe i ladri entrano dovunque; prov. dai làdre de čàśa no se skànpa i ladri più pericolosi e meno sospetti sono coloro che vivono vicino a noi; prov. e làdro tànto ki ke ròba, ke ki ke tién l sàko è ladro sia chi ruba che chi lo aiuta.
ladrón agg. (pl. ladrói, f. ladróna, pl. ladróne) ladrone, ladro incallito. Accrescitivo di ladro; ladrón de n ladrón ladrone al massimo grado.
lafesànta escl. accidenti, perbacco. Lafesànta, te le as dùte tu accidenti, le disgrazie capitano tutte a te (v. silafesànta).
lafredór sm. (inv.) raffreddore. Niére són tornòu a čàśa sóte la pióva e èi čapòu na dòśe de lafredór ieri sono tornato a casa sotto la pioggia e mi sono buscato un gran raffreddore (v. rafredór).
lagéto sm. (pl. lagéte) laghetto. Sono le pozze d'acqua che si trovano tra i rivoli in mezzo agli arbusti dove i cacciatori praticano la caccia di frodo agli uccelli con le panie. N òta se dèa ìnte dài lagéte a tènde una volta si uccellava di frodo ai laghetti.
làgo sm. (pl. làge) lago. Il termine lago è usato anche per pozze di modesta estensione, che si trovano lungo i torrenti o che sono generate dalla pioggia abbondante, ad esempio Làgo de d Aósto è un'area paludosa di 20-30 m di diametro che si forma con piogge abbondanti nel Piàn d Aósto a ovest del paese; kuàn ke te te làve, te fàs sènpre n làgo quando ti lavi spargi acqua dappertutto.
Làgo sm. (top.) località a nordest di Lozzo, dove si forma spesso un laghetto durante il disgelo primaverile e, raramente, dopo abbondanti piogge. La pozza si asciuga piuttosto velocemente. I tośàte e dùde ìnte dal Làgo a dugà i ragazzi sono andati a giocare a Làgo.
làgrema sf. (pl. làgreme) lacrime, goccia, fig. un po'. L avèa i òče pién de làgreme aveva gli occhi pieni di lacrime; na làgrema de sñàpa una goccia di grappa; na làgrema de... una lacrima di..., un po' di..., forma usata come partitivo riferito a sostanze liquide; loc. avé le làgreme prònte piangere per cose di poco conto; avé le làgreme nte skarsèla essere facili al pianto (v. na ğóža de, n ğóž de, na ğožùta de, n ğožùto de).
lagremà vb. intr. (lagreméo; lagremèo; lagremòu) lacrimare. Èi i òče ke me lagreméa sènpre ho gli occhi che lacrimano in continuazione; no sta lagremà par nùia non piangere per nulla.
làgremo sm. (solo sing.) resina. La resina viene estratta a primavera dalle vescichette che si formano sulla corteccia dell'abete bianco. Poche gocce di resina d'abete mescolata ad acqua calda sono ritenute ottime per inalazioni in caso di raffreddamento. La resina veniva anche usata dai boscaioli, per guarire le screpolature sulle mani, durante i lavori invernali. Alcuni lo ritenevano un portento per migliorare il funzionamento delle articolazioni. Tòlete dóe góže de làgremo e te pàsa dùto prova a mangiare un po' di resina e vedrai che starai subito meglio (v. avedì, ràśa, areà).
lagremós agg. (pl. lagremóśe, f. lagremóśa) lacrimoso, facile alle lacrime. Parkè sésto sènpre lagremós? perché hai sempre gli occhi pieni di lacrime?
Lagùna sf. (top.) borgata nella parte bassa del paese. In tempi lontani la zona doveva essere tutta un acquitrino; comprendeva la piazza IV Novembre e la zona circostante sia al di sopra che al di sotto della strada nazionale.
làilo agg. (pl. làile, f. làila) smorfiosetto, buono a nulla. Te sés sènpre stòu n puóro làilo sei sempre stato un buono a nulla (v. lùla, lèlo).
Làio sm. (top.) Laggio, paese dell'Oltrepiave in comune di Vigo di Cadore.
laké sm. (solo pl.) maschere che accompagnavano lo smotažìn durante il carnevale.
Làla sf. (nome) ipoc. di Osvalda.
làlo agg. (inv.) povero di spirito (v. làilo, lèlo). Kón to òn no se puó mài rìde de nùia, l é n làlo con tuo marito non si può mai scherzare, è povero di spirito.
Làlo sm. (nome) ipoc. di Osvaldo.
làma sf. (pl. làme) lama, lamina. Si chiama làma anche la lamina di acciaio avvitata ai pattini della slitta. La làma del gortèl la lama del coltello; le làme de la luóida, del kòčo le lamine della slitta, dello slittino (v. mèla).
lamentàse vb. rifl. (me laménto; lamentèo; lamentòu) lamentarsi, lagnarsi. Kél là se laménta sènpre de dùto quello si lamenta sempre di tutto; Loc. guài a lamentàse del bró gràs è uno sproposito lamentarsi pur vivendo nell'abbondanza.
lamiéra sf. (pl. lamiére) lamiera. Il termine si riferisce in particolar modo alla lamiera utilizzata per la copertura dei tetti. Kuèrto de lamiéra tetto di lamiera; dim. lamierìn lamierino (v. śìngo).
làna sf. (inv.) lana. Čàuže de làna calze di lana; èse na bòna làna essere un poco di buono; prov. ko le nùvole fa làna, pióve pàr na stemàna quando ci sono nuvole sfilacciate viene pioggia per una settimana intera; prov. e mèo pèrde la làna ke la féda è meglio rinunciare solo a qualcosa piuttosto che rischiare di perdere tutto.
lañàse vb. rifl. (me làño; lañèo; lañòu) lagnarsi, lamentarsi. Kél là se làña de dùto quello si lamenta di tutto.
làndro sm. (pl. làndre) antro, roccia spiovente, riparo per animali. In montagna sono frequenti i ripari a ridosso delle pareti rocciose, senza che questi arrivino ad essere vere e proprie caverne. Se avón betù sóte n làndro parkè l piovèa ci siamo messi sotto un riparo di roccia perché pioveva.
landróna sf. (pl. landróne) androne, corridoio lungo e buio. Nte késta landróna se se pèrde in questo androne ci si perde; loc. a l ostarìa a la landróna i màña, i béve e i se la sòna osteria alla Landrona, si mangia, si beve e si va via senza pagare.
lanğé, lonğé sm. (inv.) palo uncinato. Questo lungo palo uncinato veniva adoperato dai menadàs per regolare il movimento delle tàe durante la fluitazione del legname a valle (v. menadàs).
languì vb. intr. (languìso; languìo; languìu) languire, soffrire la fame, struggersi. To nòna languìse dì par dì tua nonna si consuma giorno dopo giorno; l e siór, ma l languìse da la fàme è ricco, ma patisce la fame.
lànguido agg. (pl. lànguide, pl. lànguida) debole, senza forze, desideroso di cibo saporito. Son sènpre lànguido desidero sempre cibi saporiti; kafè lànguido caffè lungo, acquoso.
languór sm. (pl. languóre) languore. Detto specialmente dello stomaco quando è vuoto; èi n languór ke no puói pì ho un languore insopportabile allo stomaco.
lanpedà vb. imp. (lanpedéa; lanpedèa; lanpedòu) lampeggiare dei fulmini. A lanpedòu dùta la nuóte ha lampeggiato tutta la notte.
lanpedé sm. (pl. lanpedés) ontano montano (bot. Alnus viridis ontano montano e Alnus glutinosa ontano nero). Cespuglio di piccole dimensioni, cresce in terreno ghiaioso con acqua.
lanpedìna sf. (pl. lanpedìne) lampadina. Dovón kanbià le lanpedìne de le kànbre parkè l fùlmin le a bruśàde dobbiamo sostituire le lampadine delle camere perché il fulmine le ha bruciate.
lanžìn sm. (inv.) asta di ferro lunga e uncinata. Arnese utilizzato per estrarre il fieno pressato e quindi compattato dalla medéna o dalla méda. Tòle l lanžìn e tìra fòra n tìn de fién pa la vàča prendi il lanžìn e preleva un po' di fieno per la mucca.
lanžón sm. (pl. lanžói) stiva, manico o timone dell'aratro. Okóre fèi n àutro lanžón ke késto l e bèlo dù bisogna costruire un altro manico all'aratro, perché questo è marcio e bisogna sostituirlo.
laorànte sm. (inv.) operaio, lavorante. Ñànte de maridàse l faśèa l laorànte par so mesiér prima di sposarsi lavorava per il suocero.
laóro sm. (pl. laóre) lavoro, faccenda, opera. Késto mò e n bèl laóro questo si che è un bel lavoro; èi n laóro pa le màn, ke me dà da pensà ho una faccenda da sbrigare che mi dà preoccupazioni; dón a véde i laóre de la čàśa andiamo a vedere a che punto sono i lavori per la costruzione o la ristrutturazione della casa.
làrdo sm. (pl. làrde) lardo, grasso in genere. Konžà la menèstra kol làrdo condire la minestra con il lardo; ste lugànege a màsa làrdo queste salcicce sono troppo grasse.
lareśèl sm. (pl. lareśiéi) piccolo larice. Sti lareśiéi no krése pì questi larici così piccoli che fanno fatica a crescere (v. làris).
largéža sf. (pl. largéže) larghezza. Meśùra n òta la largéža de kéla pòrta misura la larghezza di quella porta.
làrgo agg. (pl. làrge, f. làrga) largo. Késte bràge e màsa làrge questi pantaloni sono troppo larghi; fèi làrgo far largo, sgomberare; meśurà par làrgo misurare nel senso della larghezza; va n tìn al làrgo vattene via; veñì a làrgo comparire, ritrovare.
larìn sm. (inv.) focolare. Tòle su le brónže del larìn raccogli la brace del focolare; sentónse n tìn su le bànče del larìn mettiamoci un po' seduti attorno al focolare; prov. kuàn ke no e farìna nté čadìn, e guèra sul larìn quando c'è poco da mangiare in casa è facile che ci sia discordia (v. bànča).
làris sm. (inv.) larice (bot. Larix decidua). Una delle conifere più diffuse in montagna, ha una chioma rada, che non fa molta ombra, il larice perciò veniva lasciato crescere vicino ai prati da falciare. È una pianta pioniera che arriva fino ad alte quote, si aggrappa alle rocce, dà un legno rosso che resiste bene all'usura e viene quindi impiegato per la copertura del tetto, per travi esposte alla pioggia o per le tavole del pavimento. N siòlo de làris un pavimento fatto con assi di larice; na fisìna de làris un bosco, fitto fitto, di soli larici (fatto raro perché il bosco di larice è tipicamente rado); la polènta e dùda dó kóme le saéte dó pài làris avevo talmente tanta fame che ho ingoiato la polenta con voracità; dim. lareśèl (v. sàndola).
lasà vb. trans. (làso; lasèo; lasòu) lasciare, abbandonare. Lasà dó lasciare giù; làseme fòra lasciami fuori, escludimi; làseme n pàs lasciami in pace; lasón là lasciamo perdere, finiamola; làseme sta lasciami in pace; kè te àla lasòu to nòna? cosa ti ha lasciato in eredità tua nonna?; loc. sta menèstra, sto pàn, se làsa mañà questa minestra, questo pane sono appena appena mangiabili; prov. làsa fèi e làsa dì, ma no sta fèite konpatì lascia fare, lascia dire, ma non farti compatire, alle concessioni bisogna saper porre un limite; loc. lasà de pióve smettere di piovere.
laśarón agg. (pl. laśarói, f. laśaróna, pl. laśaróne) lazzarone, disonesto, fig. monello. Usato per lo più con il significato affettivo di monellaccio, birichino. Kél là e sènpre stòu n laśarón quello è sempre stato un lazzarone; laśarón de n tùto che bimbo birichino (v. ladarón).
làsko agg. (pl. làske, f. làska) allentato, lasco. Detto di viti, bulloni e simili. Sta vìda e làska questa vite è allentata.
làsta sf. (pl. làste) lastra di pietra, sasso piatto. Da cui il toponimo Krépo de le Làste località appena poco a nord del paese. Le lastre di pietra erano usate per pavimentare la cucina e per il bordo del larìn, il piano del focolare invece era fatto in refrattarie (père da fuóu); la làsta de l mè larìn e nkóra kéla de čàśa vèča del nòno la pietra di bordo del mio larìn è ancora quella del larìn di mio nonno; accr. lastón, pl. lastói.
lastéido sm. (pl. lastéide) lastra di pietra. Su pa la rìva de la Pàusa e dùto n lastéido la salita della Pàusa ha il fondo coperto di lastre di pietra.
làstra sf. (pl. làstre) lastra di vetro o di ghiaccio. I me a róto na làstra mi hanno rotto un vetro della finestra; fòra e dùto na làstra fuori il terreno è completamente ghiacciato.
lastrón sm. (pl. lastrói) lastrone di vetro, lastra di ghiaccio. Àsto vedù ke lastrón nte stràda? hai visto come è ridotta la strada? è un lastrone di ghiaccio.
lasù avv. lassù. Kuàn ke te rùe lasù dal tabià paréča fuóu quando arrivi sù al fienile, prepara il fuoco (v. là su).
làta sf. (pl. làte) latta, banda, lamiera. Il termine viene adoperato anche in senso dispregiativo. Késta e ròba de làta è roba di poco valore.
làta sf. (inv.) insieme delle stanghe adoperate per l'intelaiatura del tetto. Paréča le stànğe ke avón da fèi la làta del kuèrto prepara i pali per l'intelaiatura del tetto.
latà vb. trans. (làto; latèo; latòu) allattare. No la a podésto latà so fiól non ha potuto allattare suo figlio.
latarìa sf. (pl. latarìe) latteria, caseificio. La latteria sociale venne fondata nel 1884; portà l làte a la latarìa portare il latte al caseificio; òrpo, ke latarìa accidenti, che seno prosperoso.
làte sm. (solo sing.) latte. Mañà polènta e làte mangiare polenta e latte; làte peòu latte rappreso, una specie di yogurt che si ottiene lasciando inacidire il latte, può essere usato come digestivo e purgante, lassativo e rinfrescante soprattutto per disturbi intestinali. Làte konağòu latte inacidito con il caglio da cui si ricava il formaggio; làte śbramòu latte scremato; dà l làte allattare, svezzare; tòle l làte slattare; loc. no te mànča ñànke l làte de galìna non ti manca niente, hai tutto ciò che è possibile avere e anche l'impossibile. Il latte, insieme al granoturco e alle patate, ha costituito la base dell'alimentazione della nostra gente per molti anni. Dal latte si ricavano formaggio (formài), burro (botìro), ricotta (puìna), siero (skòlo) da dare ai maiali, nìda latticello ottenuto dagli scarti del latte costituiva il cibo dei poveri che non potevano permettersi di acquistare il latte intero. Il latte veniva bevuto anche appena munto quand'era ancora tiepido, o vi si inzuppava del pane o polenta calda e fredda, oppure lo si adoperava per fare i pestariéi la polentina, la minestra con il riso, e con le leśañéte. Il latte era parte fondamentale dell'alimentazione e chi non poteva mantenere una mucca (làte de vàča) allevava una capra (làte de čàura) o almeno una pecora (làte de féda). Làte fìs latte denso, latte rappreso; prov. ànke l làte de vàča négra e biànko le buone azioni rimangono tali indipendentemente dalla loro provenienza.
———————————————
il latte e la latteria.
La lavorazione del latte fatta in latteria. Registrazione integrale raccontata da un mìstro. Il latte veniva munto due volte al giorno: la mattina presto, verso le sei, e la sera al tramonto. Messo da parte il quantitativo che serviva per colazione e cena, il resto veniva portato alla latteria sociale. Si andava in latteria con uno o due secchi di latte e in tasca il libretto. Alla latteria, il latte veniva versato nel recipiente della bilancia, filtrato da un setaccio per eliminare corpi estranei, mentre il mìstro annotava sul libretto personale del socio il peso del latte conferito. Il lavoro di controllo, come altri lavori in latteria si facevano a turno (ròdol), secondo un ordine stabilito in riunioni apposite. Talvolta, a sorpresa, il latte veniva controllato anche col densimetro per verificare che qualcuno non avesse aggiunto acqua o tolto la panna. Dal recipiente della pesa, il latte veniva versato in un primo tempo in mastelle di legno, successivamente in vasche di rame, lunghe e strette, che venivano immerse in acqua corrente per mantenere fresco il latte. Lì rimaneva almeno per dodici ore, finché affiorava la panna (l làte farèa la bràma) che si toglieva e veniva messa nella zangola per fare il burro, mentre il resto del latte serviva per il formaggio (se deśbramèa l làte e se lo bičèa nte la péña). La zangola è come una botte, tenuta orizzontale, in cui si metteva la panna attraverso uno sportello, che si chiudeva bene, poi la si faceva girare, a mano, in due persone, o in tempi più recenti meccanicamente (ko l elètriko), così la panna veniva sbattuta a dovere finché diventava burro (botìro). Il burro veniva tolto e messo in appositi stampi con disegni intagliati sul coperchio e sui lati. Si usavano motivi artistici diversi, una vacca, un fiore, o una figura di montagna, che si imprimevano sui pani di burro che avevano un peso di un kg o mezzo kg. I pani da mezzo kg potevano essere sezionati facilmente in pezzi da 100 gr. Il prelievo del burro avveniva di solito la sera, dopo aver portato il latte, e il quantitativo veniva annotato sul libretto. Dopo aver fatto il burro, nella zangola rimaneva la nìda, un latticello scremato e leggermente acidulo che ad alcuni piace molto, ma ha un potente effetto lassativo. A seconda dei periodi, veniva dato ai poveri o aggiunto allo skòlo de mùl per farne ricotta. Mentre due facevano il burro con la zangola, altri due facevano il formaggio. Il latte scremato (làte śbramòu) veniva versato in una grande caldaia di rame (la kaliéra), con l'aggiunta di una piccola percentuale di caglio (konàğo), veniva lentamente riscaldato fino a 35°- 40° gradi, lasciandolo poi riposare finché induriva generando il formaggio, ci voleva circa un'ora. Il latte coagula prima in superficie, mentre sotto resta ancore in gran parte liquido, si interviene allora con un frustone (la lìra), un grande telaio rettangolare attraversato da corde sottili, appunto come quelle di un'arpa, che permette di sminuzzare lo strato superficiale, e mescolarlo al latte, fino ad avere una omogenea in tutta la Kaliéra. Quando il formaggio è fatto, viene tirato fuori dalla caldiera con le tele e posato su di un tavolone inclinato dove lo si può lavorare lasciando colare in un recipiente il siero che rimane. Il formaggio contenuto in sacchetti di tela, viene ben spremuto, tolto dal sacchetto e messo in stampi di legno rotondi (i skàtoi, i mùi) ottenuti chiudendo con una fascia curva le due ruote di legno che fanno da coperchio superiore e inferiore. Il formaggio dopo essere messo sotto il torchio per venir pressato deve rimanere dentro lo stampo per alcuni giorni, finché si asciuga un po' e diventa un blocco unico. Allora lo si può togliere dallo stampo, lo si mette in salamoia per essere salato e poi su dei ripiani di legno arieggiati ad asciugare. Dopo un paio di mesi è pronto per essere distribuito ai soci della latteria. Il sapore del formaggio dipende molto da quanta panna si toglie per fare il burro, ma dipende anche dall'erba che mangiano le vacche, il formaggio di giugno è migliore di quello di novembre. Durante la cottura sul fondo della caldaia si depositata la mósa, un formaggio particolarmente tenero, poco grasso, che veniva raccolto, strizzato e mangiato subito, in giornata. Il liquido che rimaneva sul fondo della caldaia si chiamava skòlo de mùl (mùl era il recipiente di legno in cui si metteva il formaggio perché prendesse la debita forma) come quello recuperato durante l'inscatolamento del formaggio negli stampi. Lo skòlo de mùl se non veniva adoperato per fare ricotta (puìna), veniva trattato con la scrematrice fino ad ottenere una specie di burro di seconda categoria, che spesso veniva mescolato a quello di prima qualità ottenuto con la zangola. A Lozzo, questo miscuglio non si usava, e le due specie venivano distribuite separatamente ai soci. Il liquido residuo veniva dato come cibo ai maiali. Se invece si voleva ottenere ricotta, allo skòlo de mùl veniva aggiunta la ténpera, dell'altro skòlo de mùl preventivamente inacidito con un po' di sale inglese, sal de kanàl, o semplicemente dell'acqua inacidita sempre col sale inglese o con aceto, e veniva scaldato fino quasi a 90°. Si formava così la ricotta, che veniva messa a colare in appositi sacchetti di tela per spremerne il liquido eccedente e per darle la forma adatta, veniva distribuita ai soci che ne facevano richiesta. La quantità di latte che finiva in ricotta era ben poca, la percentuale sul peso del conferito era circa del 3%. Durante la cottura della puìna si formavano alla superficie le śbàe, che venivano tolte, distribuite a chi le richiedeva o addirittura mescolate alla pasta della ricotta. Ultimate tutte queste operazioni rimaneva nella caldaia il siero (skòlo) che veniva distribuito (sempre ai soci) per l'allevamento del maiale. Lo skòlo si chiamava anche puarón o puorón, che significa: cosa molto povera, davvero povera. La resa finale del prodotto era generalmente: 2% burro,7% formaggio, 3% ricotta o burro di scrematrice.
———————————————
lateràl sm. (pl. laterài) comodino. Su l lateràl l a sènpre la koróna e l lìbro de le oražión sul comodino tiene sempre la corona del rosario e il libro delle preghiere; teñì l bokàl nte lateràl tenere il pitale nel comodino.
lateśìn sm. (inv.) porcellana. Èi na pùpa ko la tèsta de lateśìn ho una bambola con la testa di porcellana; l soméa fàto de lateśìn sembra fatto di porcellana, cioè è pallido, è diafano come la porcellana.
lateśìn sm. (inv.) animella, la parte commestibile degli intestini di vitello. Kuàn ke te kópe l vedèl, béteme vìa dói lateśìn ke son bramós quando ammazzi il vitello mettimi da parte un po' di animelle, che mi piacciono tanto.
latiśón sm. (pl. latiśói) lattuga selvatica, scariola, allattalepre (bot. Lactuca serriola). Erba che non veniva colta falciando, ma estirpata e utilizzata come cibo per capre o conigli, è ricca di lattice e ha foglie spinose. Tòle su dói latiśói pa i konìče raccogli alcune foglie di latiśón ai conigli.
latón sm. (solo sing.) ottone. Dùte i me kučàre e de latón tutti i miei cucchiai sono di ottone; késto no e òro, ma latón questo non è oro, ma ottone, detto di tutto ciò che sembra prezioso, ma che in realtà vale poco (v. otón).
latón sm. (pl. latói) lamiera liscia o lamiera ondulata. Viene adoperata per la copertura di tetti, tettoie e simili. Se a róto le tabèle del kuèrto, betarèi su latón si sono rotte le tegole del tetto, lo coprirò con lamiera.
làuda sf. (pl. làude) lauda. Le làude erano componimenti letterari in versi composte per le festività sacre. Le “Laude cadorine” vennero pubblicate dal Carducci nel 1892 e da Renato Pampanini nel 1938. (1)
laudà vb. trans. (laudéo; laudèo; laudòu) approvare, laudare. Il verbo viene usato per indicare l'approvazione di un Laudo, regolamento consortivo, o più semplicemente decisione, incarico, o altro provvedimento assunto da parte della Regola riunita in fàula (v. làudo).
laudadór sm. (inv.) amministratore della regola. Questa figura corrisponde all'attuale assessore all'interno del Consiglio Comunale. I due laudadór insieme al Marìgo, formavano la Mañìfìka Bànka. Avevano il compito di assistere il Marìgo e di controllarne l'operato. La paga di un laudadór ammontava a 2,5 lire venete al giorno.
laudarìa sf. (pl. laudarìe) ufficio del laudadór. Nkuói bonóra èi vedù l laudadór dì n laudarìa questa mattina ho visto l'amministratore che andava in ufficio.
làudo sm. (pl. làude) laudo, decisione regoliera. Sono Laudi sia gli Statuti che fissano le norme per la gestione della Regola, sia le singole decisioni della Regola stessa, riunita in fàula, per la gestione dei beni della Regola, come l'elezione del Marìgo, dei laudadór o dei saltàri. Alcuni antichi Laudi sono arrivati fino a noi, vi sono contenute le disposizioni che stabiliscono il modo di gestire la Mañìfika Bànka, il modo di amministrare la giustizia per danni di piccola entità o piccole liti, le norme per l'uso del territorio di pascolo e le date di carico e scarico del pascolo, oltreché quelle per le riunioni, che vengono chiamate fàule. Alcuni usi sono comuni in tutte le Regole del Cadore, compaiono cioè nei laudi di ciascuna di queste: le cariche pubbliche ad esempio sono obbligatorie, vengono ricoperte a turno, a ròdol e non ci si può esimere dall'incarico che viene affidato. La durata dell'incarico è normalmente di un anno e ciascuna famiglia, quando capita il suo turno, deve mettere a disposizione una persona che assolva l'incarico per l'intera comunità. I laudi statutari, quelli che stabiliscono i confini, gli appartenenti e le norme di gestione della Regola, venivano laudati, cioè approvati dalla Regola e poi confermati con l'approvazione del Vicario del Cadore che aveva sede a Pieve. Ciò per verificare che i Laudi non contenessero norme contrarie agli statuti della Magnifica Comunità del Cadore. Dopo la firma del Vicario, i Laudi avevano valore di legge. Il primo laudo di Lozzo, di cui si ha notizia certa, risale al 1444. I laudi di Lozzo dalla loro nascita trovano applicazione fino al crollo del dominio veneto e all'avvento della dominazione austriaca (1821); costituiscono un documento fondamentale che fornisce informazioni preziose per ricostruire la vita della comunità cadorina per oltre quattro secoli.
làura sf. (pl. làure) mucca pezzata rossa e bianca. Le vacche delle nostre parti sono sempre state di razza bruno-alpina di colore grigio-bruno scuro o anche bianche. Le vacche pezzate, rosse e bianche a chiazze venivano da fuori. Èi konpròu na vàča làura ho comprato una mucca pezzata.
laurà vb. intr. (laóro; laurèo; lauròu) lavorare. Kél là no laóra mài quello non lavora mai.
lauračà vb. intr. (lauračéo; lauračèo; lauračòu) lavoricchiare, lavorare poco e di malavoglia. Kél là a sènpre lauračòu nte la sò vìta (o lòngo la lìnea) quello ha lavorato di malavoglia per tutta la vita.
lauràda sf. (pl. lauràde) lavorata, faticaccia. Ke lauràda nkuói che razza di fatica ho fatto oggi.
lauradór sm. (pl. lauradóre) lavoratore, operaio. Késto mò e n brào lauradór questo sì che è un bravo operaio (v. laorànte).
laurèl sm. (pl. lauriéi) labbro. In particolar modo si vuole indicare il labbro superiore che in alcune persone è particolarmente evidente oppure il labbro leporino. Kéla là e nasùda kól laurèl quella è nata con il labbro leporino (v. làvero).
laurìna sf. (pl. laurìne) orina. Fèi l eśàme de la laurìna fare l'analisi delle orine; vàrda ke laurìna tórbeda guarda che orina torbida (v. pìs).
làuro agg. (pl. làure, f. làura) cavallo pomellato, vacca pezzata. Čavàl làuro è un cavallo col mantello a macchie tonde; vàča làura è una mucca che ha il pelo bianco con grandi macchie rosse (v. làura).
lautradì avv. l'altro giorno, giorni fa. E da lautradì ke spiéto ke te véñe a ğustàme l robinéto è da l'altro giorno che aspetto che tu venga a mettermi a posto il rubinetto; lautradì, me fardèl e pasòu de ka e pò no l èi pì sentù giorni fa mio fratello è passato di qua, e poi non l'ho più né visto né sentito (v. dì).
lautraniére avv. l'altro ieri, due giorni fa. Lautraniére son stòu dal dotór e l me a dòu sta medeśìna, ma son nkóra fiàko e stornèl l'altro ieri sono andato dal medico che mi ha dato questa medicina, ma sono debole e mi gira la testa (v. niére).
lavà vb. trans. (làvo; lavèo; lavòu) lavare. Làva n tin mèo sta čaméśa lava un po' meglio questa camicia; nkuói làvo dùto oggi faccio bucato generale; lavà dó lavare le stoviglie; lavà fòra l siòlo ripulire il pavimento; làvete n tin kel mùśo (kel mostàž) lavati un po' la faccia; làvete kéla bóča detto a chi parla male delle persone; loc. bóča lavàda bocca di chi denigra il prossimo; prov. na màn làva l àutra e dùte dóe làva l mùśo una mano lava l'altra e tutte due lavano il viso, l'unione fa la forza.
lavàda sf. (pl. lavàde) lavata. Loc. lavàda de čòu; tu te avaràe debeśuói de na bòna lavàda de čòu tu avresti proprio bisogno di un bel rimprovero; òñi lavàda e na fruàda per ogni lavaggio in più i capi di vestiario si consumano. Bóča lavàda persona che dice tutto senza reticenze. (v. fruàda).
lavadói sm. (inv.) lavatoio. L'asse di legno che si adoperava per lavare i piatti nel secchiaio; l'asse che serviva per lavare i panni appoggiato alla tinozza, era chiamata invece bréa da lavà cioè asse per lavare (v. lavèl).
lavadùra sf. (pl. lavadùre) sciacquatura di piatti, brodaglia. Bìča le lavadùre nte l festìn del kùčo getta gli avanzi di cucina nel truogolo del maiale; késta no e menèstra, e lavadùra questa non è minestra, è una brodaglia; savé da lavadùra non avere alcun sapore, avere un sapore cattivo.
lavamàn o lavandìn sm. (inv.) lavabo, catino. È di ferro smaltato, può essere sostenuto da una struttura in legno o di ferro.
lavèl sm. (pl. laviéi) asse da lavare. Se ne trovano di due tipi: una più piccola, che veniva adoperata per sciacquare la biancheria minuta e l'altra più larga per sciacquare lenzuola e coperte al torrente. Tòle su l lavèl e va dó nte Rin a lavà i lenžuós prendi l'asse e vai lungo il Rin a lavare le lenzuola (v. bréa da lavà).
làvero sm. (pl. làvere) labbro. Èi i làvere bruśàde da la fióra ho le labbra secche per la febbre (v. laurèl).
laviédo sm. (pl. laviéde) grosso recipiente di bronzo con tre piccoli piedi e un manico di ferro. Veniva appeso alla catena del larìn sopra il fuoco per cuocere i cibi, oppure più di frequente veniva messo sopra la brace, accanto al fuoco. Serviva per cuocere lentamente il cibo per la famiglia al completo come patate, minestre e fagioli. Ne esistono di diverse dimensioni più o meno panciuti, sempre di bronzo con i tre piedi e il manico di ferro. Béte su l laviédo e kuóśe i faśuói pa la menèstra appendi alla catena del larìn il laviédo e cuoci i fagioli per la minestra; dim. laviedùto.
lavìna sf. (pl. lavìne) valanga, slavina. Ka no se pàsa parkè e veñù dó la lavìna qui non si può passare perché è caduta la valanga.
lavinà sm. (pl. lavinàs) incavo naturale del terreno, canale in cui si calano a valle le tàe. Nkuói i bìča dó le tàe pal lavinà oggi fanno scendere i tronchi lungo il lavinà (v. lìsa, rìśina).
Lavinà de la Čùśa sf. (top.) località ad est del paese, poco oltre Loréto, sopra la Čùśa. La Čùśa (chiusa) era una specie di fortezza lungo la strada romana che da Lozzo portava ad Auronzo e in Comelico. All'interno della Čùśa avrebbe dovuto trovar riparo la popolazione in caso di invasione nemica. Questa fortezza era protetta a nord da un lavinà, da cui il toponimo Lavinà de la Čùśa.
Lavinàs sm. (top.) località a sud del paese. È la zona che dal cimitero di Lozzo scende ripida fino al Piave.
làvol sm. (pl. lavói) siero che si forma sulle ferite aperte. Kuànto làvol su sto tài quanto siero su questo taglio. Sùia l làvol se te vós ke l tài se sère tieni asciutta la ferita se vuoi che si cicatrizzi.
làžo sm. (pl. làže) laccio, fiocco, cappio per catturare animali. Léa i čavéi ko n bèl làžo de séda lega i capelli con un bel nastro di seta; no sta fèi n grópo, fèi n làžo non fare un nodo, fai un laccio; sti aužiéi i èi čapàde kol làžo questi uccelli li ho catturati con il laccio; i làže de le skàrpe le stringhe delle scarpe.
lažuó sm. (pl. lažuós) strisce di cuoio da mettere sugli zoccoli di legno per impedire al piede di scivolare. Se a róto i lažuós dei žòkoi si sono rotti i lažuós degli zoccoli (v. lenguèla).
Lè sm. (nome) soprannome di famiglia.
leà vb. trans. (léo; leèo; leòu) legare, congiungere. Léa n tìn sto pakéto lega un po' questo pacchetto; l mùro se a śbreòu, okóre leàlo il muro si è incrinato, bisogna incatenarlo; i muri perimetrali delle case, quando mostravano delle crepe, venivano tenuti assieme dagli àrpes, ossia da barre di ferro collegate a dei tiranti. No sta leàte kon kéla kanàia non allearti con quella canaglia.
leàda, leadùra sf. (pl. leàde, leadùre) legatura. Te as fàto pròpio na leàda de lùso hai fatto davvero una legatura veramente bella.
leànda sf. (pl. leànde) fettuccia, talvolta elastica, per legare le calze e evitare che caschino; fig. legaccio, qualunque cosa che serva a legare. Sta leànda e màsa strénta e la me fa màl a le ğànbe questo legaccio è troppo stretto e mi fa male alle gambe.
léda sf. (solo sing.) argilla, creta. Fèime n pùpo de léda fammi un pupazzo di argilla; te sés n pàre de léda come padre sei troppo debole, vali poco.
lediér agg. (pl. lediére, f. lediéra) leggero. Te sés lediér kóme na piùma sei leggero come una piuma; te sés lediér de kosiénža nelle tue azioni sei poco scrupoloso.
ledierì vb. trans. (ledierìso; ledierisèo; ledierìu) alleggerire, alleviare. Siénte ke čàudo, ledierìsete n tìn senti come fa caldo, alleggerisciti l'abbigliamento che hai addosso; sta medeśìna me a ledierìu n tin l màl de stómego questa medicina mi ha alleviato un po' il mal di stomaco.
lèğe sf. (inv.) legge. Sararà pùra na lèğe ànke par lùi ci sarà pure qualcuno capace di obbligarlo a fare il suo dovere; ka no e nè Dio nè lèğe qui non c'è rispetto né per lo spirito né per gli uomini; dì par màn de lèğe agire per vie legali.
leğìtima sf. (pl. leğìtime) legittima. È la parte di eredità che per legge tocca ai discendenti diretti, moglie e figli e di cui il testatore non può disporre diversamente. A suo tempo, quando a Lozzo vigevano gli Statuti del Cadore secondo i quali un padre, morendo, doveva lasciare almeno metà dei suoi beni al primo figlio maschio, mentre l'altra metà poteva esser divisa tra tutti gli altri figli, maschi e femmine. Ànke la leğìtima e grànda se il testatore è ricco, anche la legittima è cospicua.
leğitimà vb. trans. (leğitiméo; leğitimèo; leğitimòu) legittimare. Con questo verbo, il più delle volte, si voleva indicare una punizione del padre nei riguardi di qualche figlio maschio scapestrato; in questo caso il figlio, alla morte del padre, invece di essere trattato con i diritti che venivano dati ai figli maschi, veniva trattato come fosse stato una figlia, vale a dire il minimo stabilito dalla legge. L e sènpre stòu na linğéra e so pàre lo a leğitimòu è sempre stato un delinquente e suo padre nel testamento lo ha legittimato (v. leğìtima).
leğìtimo agg. (pl. leğìtime, f. leğìtima) legittimo, spettante per legge, conveniente. Dùto kél ke a fàto to màre e leğìtimo tutto quello che ha fatto tua madre è giusto, è opportuno.
legrìa sf. (solo sing.) allegria. Kuàn ke i sòna kanpanòto fa legrìa il suono delle campane a festa mette allegria.
lekà vb. trans. (léko; lekèo; lekòu) leccare, fig. adulare. Tu te sés kóme i ğàte, te léke dùto sei come i gatti, lecchi tutto; te èi parečòu na menèstra da lekàse i mostàče ti ho preparato una minestra da leccarsi i baffi; loc. ki ke léka tórna, ki ke tórna léka attrae tutto ciò che è buono o che è piacevole.
lekàda sf. (pl. lekàde) leccata. Èi dòu sólo na lekàda al botìro il burro l'ho appena assaggiato.
lekìśia sf. (pl. lekìśie) dolciume, manicaretto, eccessiva cura del proprio vestire. Kuànte lekìśie a kél batìdo quanti manicaretti erano stati preparati per quel battesimo; ma kè éla dùta sta lekìśia? ma cosa significa tutta questa ricercatezza nel vestire e nel pettinarsi?
léko sm. (inv.) incentivo, abitudine piacevole. Loc. čapà l léko prenderci gusto; te as čapòu l léko, eh ci hai preso gusto, eh!
léko sm. (inv.) sale che viene dato alle capre.
lekón agg. (pl. lekói, f. lekóna, pl. lekóne) goloso, fig. adulatore. Èi fàto péta parkè l me òn e n lekón ho fatto una torta perché mio marito è goloso.
lèlo agg. (pl. lèle, f. lèla) stupidino, povero di spirito. Te sés pròpio n puóro lèlo sei davvero un povero sciocco (v. tananài).
lemòśina sf. (pl. lemòśine) elemosina, carità. Dì a lemòśina andare all'elemosina.
lemośinà vb. intr. (lemośinéo; lemośinèo; lemośinòu) elemosinare. Parkè lemośineésto sènpre? perché vai sempre a chiedere l'elemosina? Savón ke te puós, ma te as nkóra l vìžio de lemośinà sappiamo che hai di che vivere, tuttavia ti è rimasto il vizio di elemosinare.
lén sm. (inv.) legno. Sta bànča e de lén de fagèra questa panca è di legno di faggio; te sés na màre de lén come mamma non vali niente; prov. al lén stòrto va n stèle il legno storto va in pezzetti, cioè chi agisce male, finisce male; prov. la ràśa tién da l lén ciascuno protegge o difende i suoi interessi o i suoi cari .
leñàda sf. (pl. leñàde) legnata, batosta. Te avaràe debeśuói de n fràko de leñàde ti farebbe bene prendere un sacco di legnate; l a čapòu na leñàda ke i bàsta pa n tokéto ha preso una batosta che gli basterà per un pezzo.
leñàme sm. (solo sing.) legname. Àsto bèlo vendù l leñàme? hai già venduto il legname, i tronchi d'albero che hai fatto tagliare? .
lèndis sm. (inv.) uova di pidocchio, lendine (zool. Pediculus Humanus e specie simili). Sia quelle che si vedono in testa ai bambini, sia le uova lenticolari di color bianco che si vedono sulle rose e sul sambuco. Kel tośàto a i čavéi pién de lèndis quel bambino ha i capelli pieni di uova di pidocchio; kel tośàto a d avé vù n bondói lèndis su l čòu quel bambino deve aver avuto molte uova di pidocchio sulla testa; prov. kópa l lèndis e te kópe l peduóğo se si elimina un male fin dal suo nascere, allora non potrà più svilupparsi (v. peduóğo, ğèndis).
léñe sf. (solo pl.) legna da ardere, legna in genere. Dì a léñe andare a tagliar e raccogliere legna nel bosco; ntasà o ntasonà léñe accatastare legna; spakà léñe spaccare, tagliare, sminuzzare legna; fèi su léñe andare nel bosco dove sono stati tagliati i tronchi, raccogliere i rami e staccare le fronde, lo stesso che dire śbreà su léñe i tronchi schiantati, rotti in senso longitudinale con cunei di legno o ferro venivano chiamati śbrége. Dì a tòle léñe andare con la slitta o con il carretto a fare il carico della legna preparata per l'inverno; le léñe del fién legni preparati per trasportare con la slitta il fieno falciato in alta montagna. Di solito erano rami ben dritti, lunghi circa 1,5-2,0 m che venivano posti sul piano e sui fianchi per tenere assemblato il carico di fieno (v. śbrégo).
leñèra sf. (pl. leñère) legnaia. Va fòra nte leñèra a tòle dóe léñe va nella legnaia a prendere un po' di legna; la legnaia è adiacente alla casa ed è costituita da una tettoia in legno che può essere aperta o chiusa. Nella legnaia era accatastata tutta la legna necessaria per l'inverno insieme agli attrezzi necessari per spaccarla, žòka, manère e manarìn di vario tipo, siéga e siegón, kavaléto, déi per trasportarla, kòrde, funàže e renkonèle. Si chiamava leñèra anche un piccolo mobile in legno con apertura dall'alto che si teneva in cucina e che conteneva la legna necessaria per un giorno .
lénga sf. (pl. lénge) lingua. Lénga lònga lingua lunga; lénga sčéta lingua pronta, chiara nel parlare; Bèta da la lénga sčéta Betta dalla lingua pronta, detto di chi parla sempre in modo chiaro ed esplicito; béte fòra la lénga metter fuori la lingua, fare boccacce; mòrdese la lénga mordersi la lingua, tacere, tener la bocca chiusa; teñì la lénga a pósto saper tacere; loc. teñì la lénga de ìnte déi dènte saper mantenere i segreti; avé na lénga ke tàia e brùśa oppure la lénga tàia e brùśa essere maldicente; loc. avé la lénga kóme n funàžo (kóme na ślavažèra) sparlare di tutto e di tutti; prov. e mèo taiàse la lénga ke dì dùto è meglio mordersi la lingua che parlare troppo; prov. la lénga bàte añó ke l dènte duó la lingua batte dove il dente duole; prov. la lénga no a òs, ma spàka l dòs le parole possono far più male di una bastonata; prov. la lénga se fa stràda dapardùto chi sa parlare bene, fa carriera facilmente; loc. lénga tàśe espressione che si dice di solito portandosi la mano alla bocca come per evitare di dire qualcosa di spiacevole o compromettente.
lénga de bìsa sf. (pl. lénge de bìsa) piantaggine, lanciola (bot. Plantago lanceolata). Erba piuttosto nota, bassa e ricciolata che cresce soprattutto nei bosco rado. A differenza della piantaggine maggiore, che ha le foglie alla base tonde, questa ha foglie lunghe e lanceolate, appunto come lénge de bìsa.
lénga de bò sf. (pl. lénge de bò) tasso barbasso (bot. Verbascum thapsus) fiori gialli, erba alta 1 m e più, cresce anche sulla ghiaia, larghe foglie usate anche come tabacco.
lénga de vàča sf. (pl. lénge de vàča) acetosa, lingua di vacca (bot. Rumex acetosa). Assomiglia al farfaraccio, ma è molto più esile, grande come un normale filo d'erba, con infiorescenze rosse di sapore acidulo che può essere mangiata anche dall'uomo.
lengàta sf. (pl. lengàte) linguaccia. Può essere considerato il peggiorativo de lénga. Va là, lengàta ke no te sés àutro vai via, malalingua che non sei altro.
lengèla sf. (pl. lengèle) linguetta. La lengèla de le skàrpe la linguetta delle scarpe.
lengón agg. (pl. lengói, f. lengóna, pl. lengóne) maldicente, chiacchierone. No sta èse kosì lengón non essere così chiacchierone, così maldicente.
lènte sf. (pl. lènte) lente, occhiali. Védo póčo, èi debeśuói de tòle su le lènte vedo poco, ho bisogno di mettere gli occhiali; brusà ko la lènte gioco primaverile dei bambini che consiste nell'incidere il legno con fori, scritte e disegni, sfruttando il calore dei raggi del sole concentrati da una lente.
lenžuó sm. (pl. lenžuós) lenzuolo. Lenžuó de lìn, de kànego lenzuolo di lino, di canapa, tessuto delle lenzuola comuni; lenžuó de sčòra telo di iuta a forma di lenzuolo dotato agli angoli di quattro cordoni che serviva per portare il fieno dal prato al fienile; se te vós ke l fién no skànpe, léa polìto i kordói del lenžuó se vuoi che il fieno non fuoriesca, lega bene i cordoni del telo; prov. mèo fruà skàrpe ke lenžuós è meglio andare a lavorare che rimanere a letto ammalati (v. kuèrta).
lèpa sf. (solo sing.) vegetazione viscida costituita da alghe. Di solito si forma in fondo alle fontane o agli stagni, fig. tutto ciò che è viscido. Siénte ka ke lèpa senti qui che viscidume.
lésa sf. (inv.) erba secca che rimane nei prati non falciati. Kón dùta la lésa ke e n ğìro avón da sta tènti al fuóu con tutta l'erba secca che c'è, dobbiamo stare attenti agli incendi.
lesà vb. trans. (lèso; lesèo; lesòu) lessare, cuocere nell'acqua. Lèsa dóe èrbe pàl poržèl cuoci un po' di verdura per il maiale.
lèso sm. (solo sing.) carne lessa. Al lèso no me piàśe il lesso non mi piace.
lèso agg. (pl. lèse, f. lèsa) lesso, lessato. Kàrne lèsa, faśuói lèse carne lessa, fagioli lessi.
lèsa, lèisa sf. (pl. léśe) fettina. Dàme na lèsa de polènta, de formài, de pàn dammi una fettina di polenta, di formaggio, di pane.
leśàñe, laśàñe sf. (solo pl.) lasagne, pasta. Piatto speciale, un tempo ritenuto cibo per le grandi occasioni, a base di pasta fatta con acqua, farina bianca, uova e sale, lavorata sul panaruó e poi stesa con il mattarello, méskola. Le lasagne si mangiavano asciutte, condite con burro fuso e ricotta; nkuói èi mañòu laśàñe kol botìro e puìna vèča gratolàda oggi ho mangiato lasagne condite col burro e ricotta affumicata grattugiata (v. laśañéte).
léśin agg. (pl. léśin, f. leśìna, pl. leśìne) logoro, liso. Ste čàuže e bèlo léśine queste calze sono già consumate; forma avv. leà léśin legare poco stretto qualcosa.
lesìva sf. (pl. lesìve) bucato fatto alla maniera antica con la cenere. Fèi lesìva fare bucato; loc. te as fàto lesìva sei pallido, si vede che sei stato ammalato; te avaràe debeśuói de n tìn de lesìva sei così sporco che avresti bisogno di essere lavato con l'acqua di bucato (v. tanbùro).
lesivàžo sm. (pl. lesivàže) acqua sporca che rimane dopo aver fatto il bucato. Bìča via l lesivàžo butta via l'acqua sporca del bucato; késto no e kafè, e lesivàžo questo non è vero caffè è una brodaglia.
lesivèra sf. (pl. lesivère) luogo chiuso o all'aperto dove viene fatta la lesìva. Si tratta di solito di una piccola costruzione in muratura su cui veniva posto e fatto riscaldare un pentolone colmo d'acqua per la lesìva.
leśùra sf. (pl. leśùre) articolazione. Me duó dùte le leśùre mi fanno male tutte le articolazioni (v. krośèra).
letànie sf. (solo pl.) litanie, fig. lamentele. Daspò l rośàrio se dis su le letànie dopo il rosario si recitano le litanie; no sta skominžiàla ko le tò letànie non ricominciare con le tue lamentele.
letiéra sf. (pl. letiére) lettiera, giaciglio per le bestie, est. letto. Va a fèi la letiéra a la vàča va a preparare la lettiera alla mucca; l a konpròu na letiéra nuóva ha comperato un letto nuovo.
létra sf. (pl. létre) lettera. Èi čapòu na létra da la nène n Amèrika ho ricevuto una lettera dalla zia che è in America.
lèva sf. (pl. lève) servizio di leva, leva per sollevare pesi. Stan me tóča dì a la lèva quest'anno debbo andare alla visita militare di leva; fèi lèva ko n pàlo fare leva con un palo.
levà sm. (inv.) lievito. Stó pàn a póčo levà questo pane è lievitato poco; ko n tin de levà la péta vién pì bòna con un po' di lievito la focaccia diventa più buona.
levà vb. trans. imp. (lèva; levèa; levòu) alzare, sorgere del sole. Levà su alzarsi quando si è seduti o sdraiati; sul levà del sól al sorgere del sole, all'alba.
levàse vb. intr. rifl. (me lèvo; levèo; levòu) alzarsi, alzarsi da letto, alzarsi da seduto, fig. lievitare del pane. Ió lèvo kuàn ke me desédo io mi alzo non appena mi sono svegliato; se védo l parón, me lèvo alòlo da sentòu se vedo il padrone, mi alzo subito, cioè mi metto subito a lavorare; lasà ke l pàn se lève lasciare che il pane lieviti; levàse sù alzarsi (v. aužàse).
levažión sf. (solo sing.) elevazione. Si tratta di una parte della liturgia eucaristica durante la messa. A la levažión se se béte ndenočón durante l'elevazione ci si inginocchia.
leverìn sm. (inv.) arnese di ferro adatto a sollevare pesi, stanga. Sólo no te puós aužà kél perón, dòra l leverìn da solo non puoi alzare quel sasso, adopera la stanga.
levòu agg. (pl. levàde, f. levàda) alzato. Sésto bèlo levòu? sei già alzato? l'espressione viene rivolta anche come saluto a chi si incontra lungo la strada per dire: buongiorno, come va?
ležión sf. (inv.) lezione, rimprovero, lettura delle profezie durante la messa. Kél tośàto fa màsa malegràžie, l a debeśuói de na bòna ležión quel ragazzo fa troppe marachelle, ha bisogno di un severo rimprovero; àsto fàto le ležión? hai fatto i compiti?
léžito agg. (pl. léžite, f. léžita) lecito, permesso. Késto no e léžito a nisùn questo non è permesso a nessuno.
Lìbra sf. (nome) soprannome di famiglia.
libréto sm. (pl. libréte) tavoletta di cioccolata, libretto. Se te vas da spežiér, kónpreme n libréto de čikolàta se vai dal droghiere Pellegrini, comprami una tavoletta di cioccolata; libréto de la latarìa libretto su cui venivano annotate quotidianamente tutte le operazioni fatte in latteria: misurazione del latte portato la mattina e la sera e pesa della ricotta del formaggio e del burro ritirati. Prov. Ki ke kónpra ròba sul libréto, va n malóra chi compra a credito, va presto in rovina; libréto da Mésa, de le oražión, de la pòsta il libretto della Messa, delle orazioni, dei depositi postali.
lìbro sm. (pl. lìbre) libro, volume. A mi me piaśe liéde lìbre a me piace leggere; al vó savé sènpre na pağina pì del lìbro fa sempre il saputello; kel là no vién pì sul mè lìbro ho rotto i ponti con quella persona; loc. la čàura i a mañòu i lìbre detto a chi non è stato in grado di portare a termine gli studi; dim. libréto; acc. librón; dispr. libràto; vezz. librùto.
lìdo sm. (solo sing.) sabbia finissima per fare malta da intonaco. Ko n tìn de lìdo la màlta vién pì lìsa con un po' di sabbia fine, si ottiene malta più liscia; dà su l lìdo stendere l'ultima mano di intonaco prima di imbiancare una parete. L'operazione viene eseguita in tre fasi: prima si stende la malta, grédo, poi l'intonaco lìso e per ultimo si imbianca (v. grédo).
liéde vb. trans. (liédo; liedèo; liedù, liedésto) leggere. Kuàn ke se màña no se liéde, fa màl ài òče e a la pànža se si legge quando si è a tavola, si legge male e si digerisce ancora peggio.
liedùda, liedésta sf. (pl. liedùde; liedéste) letta. Èi dòu na liedùda al kontràto e me par ke l pó dì ho dato una letta al contratto e mi pare che possa andar bene.
liégro agg. (pl. liégre, f. liégra) allegro, euforico, alticcio. Ió són sènpre liégro io sono sempre felice; l e ruòu, ke l èra bèlo liégro quando è arrivato era già alticcio.
liéto sm. (pl. liéte) letto, giaciglio. Dì nte l liéto andare a letto; aužàse da liéto alzarsi dal letto; dormì da čòu del liéto dormire con la testa appoggiata verso la testiera; dormì dai pès del liéto dormire con la testa appoggiata sulla parte opposta del letto; mudà l liéto cambiare le lenzuola del letto; fèi l liéto rifare il letto; desfèi l liéto disfare il letto; liéto de làna, de krìna, de foiòle letto con materasso di lana, di crine, di foglie di granoturco; fèi l liéto a la vàča preparare la lettiera alla mucca (v. čòu).
Ligònte sm. (top.) località a sudovest del paese che confina con il territorio di Domegge.
limà vb. trans. (lìmo; limèo; limòu) limare. Limà vìa assottigliare, togliere; lìma n tin vìa sto grópo lima un po' questo nodo.
lìn sm. (inv.) lino. Lenžuós, antimèle, tovàe, čaméśe de lìn lenzuola, federe, tovaglie, camice di lino.
lìndo agg. (pl. lìnde, f. lìnda) consunto, liso. Čàuže lìnde calze consumate (v. léśin).
linğéra sf. (pl. linğére) delinquente, mattacchione, perditempo. Kel là e sènpre stòu na linğéra quello è sempre stato un delinquente; linğéra ke no te sés àutro mattacchione che non sei altro; čapèl a la linğéra cappello sulle ventitrè.
lìntima sf. (pl. lìntime) fodera del materasso. Okóre kanbià le lìntime ke le e dùte fruàde bisogna sostituire le fodere del materasso perché sono consumate.
lìntime sf. (solo pl.) lentiggini. I rós de čavéi e sènpre pién de lìntime coloro che sono rossi di capelli hanno sempre molte lentiggini.
lipà vb. intr. (lìpo; lipèo; lipòu) fumare. Lìpa, lìpa e pò te vién la tóse fuma, fuma che poi ti viene la tosse.
lìra sf. (pl. lìre) lira. La lira era la moneta in uso nella Repubblica Veneta e quindi anche in Cadore a partire dal 1420, anno in cui il Cadore si è dato a Venezia. Era una moneta d'argento fuso con rame. Si potevano distinguere la lìra gròsa che valeva venti soldi grossi, e la lìra pìžola che valeva venti soldi piccoli.
lìra sf. (pl. lìre) libbra. La libbra è un'unità di peso; la libbra grossa di Treviso corrisponde a circa gr. 516, il suo sottomultiplo è l'oncia grossa che corrisponde a un dodicesimo della libbra grossa. Esiste inoltre la libbra sottile corrispondente al peso di circa gr. 301, il cui sottomultiplo, l'oncia sottile, è di circa gr. 150. Secondo quanto riporta Ezio Baldovin l'oncia sottile corrisponde a un dodicesimo della libbra sottile, cioè a gr. 25, secondo altri invece il corrispondente è di circa gr. 43. Kónpra dóe lìre de pàn comperare due libbre di pane.
lìra3 sf. (pl. lìre) frusta. Arnese che veniva adoperato per rompere la pasta del formaggio o della ricotta appena si è formata nella caldaia della latteria, sminuzzarla e poi metterla negli appositi stampi. Il termine comunque è spesso sostituito da śgorlón (v. làte).
lìs, slìs agg. (pl. lìse, f. lìsa) liscio. Siénte ke lìsa sta bréa senti com'è liscia quest'asse; dà l lìs intonacare una parete con malta fine; dùto va lìs tutto fila liscio, tutto procede senza intoppi; tu te la pàse sènpre lìsa tu eviti abilmente ogni rimprovero.
lìsa sf. (pl. lìse) canale artificiale per far scendere a valle i tronchi. Dopo il taglio del bosco, dove non è possibile trasportare i tronchi a valle lungo canali naturali, venivano costruiti con i tronchi dei colatoi artificiali sui quali si facevano scivolare le tàe (v. rìśina).
liśìna sf. (pl. liśìne) filo di canapa ritorta impregnato di pece. Si tratta di un filo trattato che si adoperava per cucire le scarpe.
liśinpón sm. (solo sing.) oltre confine, all'estero. Termine generico per indicare i territori di emigrazione. Ne vengono fornite diverse etimologie, la più accettabile è senz'altro quella proposta dal prof. Giovanni Fabbiani che fa risalire il termine alle emigrazioni del secolo scorso. Molti cadorini infatti, essendoci stati per obbligo militare negli anni dal 1815 al 1866, in periodo di difficoltà economica, sono ritornati a cercar lavoro in territorio austriaco e qui assunti per la costruzione delle linee ferroviarie, “Eisenbahn” = ferrovia, che si stavano costruendo allora appunto in Germania e nell'Impero Austro - Ungarico. Ànke l nòno e dù a laurà nte liśinpón anche il nonno è andato a lavorare in ferrovia, che poi diventa: è andato a lavorare all'estero; ñànke te fóse dù al liśinpón risposta ironica rivolta a chi vuol dar da intendere di essere molto stanco o di essere andato molto lontano.
liśinponèr sm. (inv.) emigrante, persona che va o è andato a lavorare all'estero (v. liśinpón).
lìsta sf. (pl. lìste) lista, fettina, elenco, striscia. La lìsta de ki ke a da dì a la Kréśema l'elenco di coloro che devono ricevere la Cresima; màñete na lìsta de formài mangiati una fettina di formaggio; béte na lìsta de kartón nte l čapèl ke l e màsa gràn metti una striscia di cartone nel cappello perché ti è troppo largo.
listèl sm. (pl. listiéi) listello. Béte n listèl sóte la pòrta ke vién ìnte frédo metti un listello nella fessura che è sotto la porta perché entra aria fredda.
listés, listéso agg. (pl. listése, f. listésa) lo stesso, il medesimo. Pàr me fa listés per me fa lo stesso; dàme na palànka de listéso vìn dammi un bicchiere dello stesso vino (v. distéso, stés).
litràto sm. (pl. litràte) ritratto, immagine. Me són fàto l litràto mi sono fatto fare un ritratto, una fotografia; l e l litràto de so pàre è il ritratto, assomiglia a suo padre (v. ritràto).
lìtro sm. (pl. lìtre) litro. N lìtro, n kuàrto de lìtro, mèdo lìtro o na mèda un litro, un quarto di litro, mezzo litro; daśéme n lìtro de làte datemi un litro di latte.
livèl sm. (pl. liviéi) livello, livella. Al livèl de l àga il livello dell'acqua; béte a livèl portare a livello, livellare; livèl a piónbo livello a piombo, filo a piombo; dorà l livèl adoperare la livella.
livelà vb. trans. (liveléo; livelèo; livelòu) livellare, appianare, anche in senso figurato. Livèla n tìn sto siòlo ripiana questo pavimento; adès, dùto e livelòu adesso tutto è sistemato, tutto è a posto (v. śgualivà).
lo pron. pers. (pl. li, f. la, pl. le) lo. Ió lo màño, la màño, li màño, le màño io lo mangio, la mangio, li mangio, le mangio, per descrivere un'azione; màñelo, màñela, màñeli, màñele mangialo, mangiala, mangiali, mangiale, per comandare un'azione (v. tabella pronomi).
lóa sf. (pl. lóe) lupa (zool. Canis lupus). Màl de la lóa fame insaziabile; la màña kóme na lóa mangia come un lupo.
Loarìne sf. (nome) soprannome di famiglia. Si tratta del cognome Lovarini che col tempo è divenuto anche soprannome. Il termine si riferisce agli ambulanti che da Bergamo arrivavano fino a Lozzo.
lòbia sm. (solo sing.) spedito, rapido. Usato nella loc. l va kóme l lòbia va molto velocemente, va spedito.
lòda sf. (pl. lòde) corridoio. Sia quello dell'entrata di casa, sia l'accesso ai piani superiori. Sfreà dó le lòde lavare con acqua, sapone e bruschino i pavimenti dei corridoi; skoà le lòde scopare i pavimenti dei corridoi; èse kóme n čòko nte lòda barcollare muovendosi in modo evidente.
Lòda sf. (nome) soprannome di famiglia.
lodà vb. trans. (lòdo; lodèo; lodòu) lodare, encomiare. L mèstro me a lodòu parkè són stòu brào a skòla il maestro mi ha lodato perché sono stato bravo a scuola.
lòfer agg. (inv.) poltrone, fannullone. Inglesismo da “Loafer”; te sés sènpre stòu n lòfer sei sempre stato un fannullone.
lòfia sf. (pl. lòfie) peto molto puzzolente. Te as molòu na lòfia ke me a fàto di n skéna hai emesso una puzza che mi ha fatto andar disteso.
logà vb. trans. (lógo; logèo; logòu) collocare, sistemare. Daspò ke èi logòu la nòna, vàdo a dormì dopo avere sistemato la nonna vado a dormire.
logàse vb. rifl. (me lógo; logèo; logòu) collocarsi, sistemarsi. Me són logòu polìto mi sono collocato bene.
lòi sm. (inv.) loglio, (bot. Lolium temulentum zizzania, o anche Agropyrum repens gramigna). Erba di ricordo biblico, con piccole spighe che, quando son mature diventano velenose, vanno quindi tolte prima che il campo arrivi a maturazione. Al čànpo e pién de lòi il campo è pieno di loglio, è invaso dalla gramigna (v. erbe).
lonbàrda sf. (pl. lonbàrde) tasca posteriore della giacca di velluto di cacciatori e boscaioli; per est. tasca più grande del normale. Nella lonbàrda venivano riposti i frutti della caccia, lepri, uccelli ma anche altro. Al se a ğenpù la lonbàrda de póme si è riempito la tasca di mele.
lonbardàse vb. rifl. (me lonbardéo; lonbardèo; lonbardòu) riempirsi in modo esagerato le tasche. Màña, ma no sta lonbardàte mangia pure, ma non andartene con le tasche piene; la frase ricorda il prov. mañà ma nò skarselà mangiare ma non mettere in tasca.
lónbol sm. (pl. lónboi) lombo, arista di maiale. La pàrte pì bòna del kùčo e l lónbol la parte più saporita del maiale è il lombo; me fa màl dùte i lónboi mi dolgono i lombi, mi duole la schiena.
lonbrèla sf. (pl. lonbrèle) ombrello. No sta deśmenteàte la lonbrèla non dimenticarti l'ombrello (v. onbrèla).
londò sm. (inv.) carrozza a quattro ruote. Vósto ke véñe a tòlete kol londò? vuoi che venga a prenderti con la carrozza come i signori, detto a chi è sempre in ritardo.
Lònğa, Val Lònğa sf. (top.) località ad ovest del paese che si trova prima del paese sul versante nord.
longàna sf. (pl. longàne) antica strega. Sta nuóte le longàne me a spaśemòu questa notte le streghe mi hanno spaventato (v. anguàne, erbère, strìe).
Lonğarìn sm. (top.) valle percorsa dal Rin prima che il torrente entri in paese.
longàro sm. (pl. longàre) trave lunga adibita a vari usi; dim. longarìn.
longéža sf. (pl. longéže) lunghezza. Le principali misure di lunghezza erano: pàs (m 1,738675); mìlio (1000 passi, m 1.738,675, miglio veneto ); pèrtega (2 passi); paséto (m 1,0431); pè (1/5 di passo o 1/3 di passetto); kuàrta (1/2 piede); ónža (1/12 di piede); bràžo da pano (m. 0, 6954); bràžo da séda (m. 0,6551); bràžo da téla (m. 0,7653); àsto meśuròu la longéža de la karpéta? hai misurato la lunghezza della gonna?
lòngo, lònğo agg. (pl. lònge, f. lònga) lungo. Menèstra lònga brodaglia; čavéi lònge capelli lunghi; lénga lònga lingua lunga, linguacciuto; par lòngo in senso longitudinale, secondo la lunghezza; no sta fèila lònga non farla lunga, non dilungarti troppo; véño de lòngo vengo immediatamente; a la lònga veñarèi domàn al più tardi verrò domani; dì pa le lònge, tiràla pa le lònge tirarla per le lunghe, dilungarsi; de lòngo vìa durante il tragitto, lungo la strada; de lòngo su, de lòngo dó lungo tutta la salita e lungo tutta la discesa.
lontàn agg. (pl. lontàne, f. lontàna) lontano. L čànpo e màsa lontàn il campo è troppo lontano; a la lontàna alla lontana, al più tardi; són parènte a la lontàna siamo lontani parenti.
lontàn avv. lontano. No sta dì lontàn non andare lontano, non allontanarti; a la lontàna màrte ke vién rùo su al più tardi arrivo su martedì prossimo.
lontanà, lontanàse vb. intr. e rifl. (lontanéo; lontanèo; lontanòu) allontanare, allontanarsi. Lontanéa ste čàuže dal fuóu tieni lontane queste calze dal fuoco; no sta lontanàte màsa non allontanarti troppo.
lópa sf. (solo sing.) fanghiglia. Vàrda ké lópa guarda quanto fango, quanta sporcizia.
lòra , lóntra sf. (pl. lòre) grande imbuto. Loc. béve kóme na lòra bere come un ubriacone.
Lòra sf. (nome) soprannome di famiglia.
lordarìa sf. (pl. lordarìe) sporcizia, sudiciume, fig. immoralità. Nte sta čàśa e dùta na lordarìa questa casa è tutta piena di sporco, è piena di porcherie; al di de nkuói su pai ğornài no e àutro ke lordarìe al giorno d'oggi sui giornali si trovano solo sconcerie.
Lorenžàgo sm. (top.) Lorenzago.
Loréto sm. (top.) località a nord-est del paese dove sorge l'omonima chiesa dedicata alla Vergine.
lósko sm. (solo sing.) gramignola. Erbe che crescono vicino alle casere e che le mucche non mangiano perché sono troppo dure.
lòto sm. (pl. lòte) appezzamento di bosco, quota nella divisione dei beni, gioco del lotto. Èi taiòu i làris del mè lòto ho fatto tagliare i larici del mio appezzamento di bosco; de la ròba del pàre avón fàto kuàtro lòte abbiamo diviso in quattro lotti l'eredità paterna; dugà al lòto oppure béte al lòto giocare al lotto .
lòu sm. (pl. lòu) lupo (zool. Canis lupus). Son molti anni che non si vedono più lupi in Cadore, non esiste persona che dica di aver visto o di aver sentito dire di qualcuno che ha visto un lupo, ma i numerosi detti lasciano intendere che in tempi remoti il lupo sia realmente vissuto nel nostro territorio. Al krìda kóme n lòu urla come un lupo; se no te stas bon čàmo l lòu se non sei buono, chiamo il lupo, espressione di rimprovero e di minaccia rivolta ai bambini; loc. te màñe kóme na lóa mangi come una lupa; te sés na lóa sei un insaziabile mangione; èi na lóa ho una fame incredibile. Al Sàuto de l Lòu località a nord del paese.
lóž sm. (solo sing.) sudiciume. Al vìve nte l lóž vive nella sporcizia; vàrda ke lóž guarda quanta sporcizia.
Lóže sm. (top.) Lozzo. Gli abitanti del paese sono soprannominati anche ki del kòdiče quelli del codice, forse perché spesso ricorrevano ai giudici o citavano gli articoli del codice punto per punto, e i Mosìte i moscerini, forse in paese, vista la sua posizione, c'erano molti insetti (v. soranòme).
lùdro sm. (pl. lùdre) spauracchio per uccelli. Era costituito da un disco di vimini che veniva lanciato in aria all'interno del roccolo per spaventare gli uccelli che, abbassando la loro traiettoria di volo, finivano contro le reti rimanendone impigliati.
lùdro agg. (pl. lùdre, f. lùdra) ingordo, mangione. Te sés pròpio n lùdro sei proprio insaziabile.
lugànega sf. (pl. lugànege) salciccia. Mañà polènta e lugànege mangiare polenta e salcicce; lugànege bòne salcicce fatte con la carne migliore del maiale; lugànege de sàngo salcicce fatte con sangue del maiale mescolato a lardo, una vera leccornia da mangiare con le patate lesse calde; lugànege de trìpe o de sekónda salcicce fatte con la cotenna e altre parti scadenti del maiale, ben tritate, mescolate con lardo e aromatizzate, ottime con la polenta abbrustolita sulla brace; fèi su lugànege preparare le salcicce; e pì dìs ke lugànege nella vita bisogna risparmiare perché spesso il cibo che si ha a disposizione non è sufficiente; prov. prèdike kùrte e lugànege lònge fatti e non parole; prov. kol bró no se fa lugànege con le chiacchiere non si conclude niente di concreto; prov. dapardùto le lugànege e takàde su sóte ogni conquista si ottiene col sacrificio e coll'impegno.
luganegèr sm. (inv.) norcino, salsicciaio. Si tratta di un mestiere delicato e impegnativo: non è sufficiente infatti conoscere l'arte del fare salcicce, salami, cotechini e ossocolli, ma è necessario anche saper scegliere la cantina adatta per conservare e stagionare i prodotti.
lugerìn, lùger sm. (inv.) lucherino (zool. Carduelis spinus). Uccellino del grupppo dei fringuelli e dei cardellini, uccelli dai colori vivaci, il maschio è giallo verde, la femmina più grigia. É noto per un cinguettio quasi continuo, allegro e molto musicale. Al čànta kóme n lugerìn canta come un lucherino, canta bene ed è sempre allegro; spàvio kóme n lugerìn timido ed eccitabile come un lucherino.
lugór sm. (pl. lugóre) chiarore, bagliore, alba (v. luśór).
lùi pron. pers. (pl. luóre, f. éla, pl. éle) lui, egli, esso. Lùi no rìde mài lui non ride mai; no sta dì kón lùi non andare con lui; fig. l e n puóro lùi è un povero scemo (v. puóro, tabella pronomi).
lùia sf. (pl. lùie) scrofa (zool. Sus varie specie), fig. mangione. Termine usato più come insulto che in riferimento all'animale domestico che viene detto kùčo, indipendentemente dal sesso. Kel là e pròpio na lùia quello è proprio un ingordo.
lukéto sm. (pl. lukéte) lucchetto, serratura. Sèra l lukéto e dón chiudi il lucchetto, e andiamo.
lùla, làilo, lèlo agg. (inv.) sciocco, balordo. No sta èse sènpre la sòlita lùla non essere sempre il solito balordo.
lùlio sm. (solo sing.) luglio. Ka da neàutre lùlio e l més pì čàudo da noi luglio è il mese più caldo.
Lùme de San Laurènžo sm. (nome) amministrazione dei beni della parrocchia di San Lorenzo. Era così chiamata la fabbriceria della chiesa parrocchiale dedicata appunto a San Lorenzo martire; possedeva campi e boschi per l'acquisto di olio, cera, paramenti e altri oggetti sacri necessari alle funzioni religiose.
lumiéra sf. (pl. lumiére) lampada a petrolio. Npižà la lumiéra accendere la lampada a petrolio (v. luminiéra).
lumìn sm. (inv.) lumino. Npìža l lumìn davànte Sant'Antòne accendi un lumino davanti all'immagine di S. Antonio. I lumini potevano essere di tipo diverso: quello a petrolio serviva ad illuminare le stanze; il lumino più artigianale era quello che si otteneva accendendo un lumino immerso in un bicchiere o in una tazzina riempiti di acqua a cui veniva aggiunto un filo d'olio; questo lumino veniva solitamente posto davanti alle immagini dei santi, specialmente quella di S. Antonio abate, Sant'Antòne de denèi o Sant'Antòne dei poržiéi protettore degli animali, e di S. Antonio da Padova. Il lumino ad olio con lo stoppino e il galleggiante in sughero veniva posto in cimitero sopra le tombe specialmente nella settimana della festività dei Santi e dei Morti. Te sés pién kóme n lumìn sei ubriaco fradicio; l e dù via kóme n lumìn žènža òio si è spento pian piano, è morto in pace, senza soffrire; loc. no e pì òio nte lumìn è diventato molto difficile tirare avanti, non ci sono più risorse.
luminàl sm. (pl. luminài) abbaino. Se te vós dì sul kuèrto, okóre pasà pal luminàl se vuoi salire sul tetto, è necessario passare dall'abbaino.
luminiéra sf. (pl. luminiére) lampada a petrolio con tubo di vetro (v. lumiéra).
lumìnio sm. (solo sing.) alluminio. Čàže de lumìnio mestoli di alluminio; lùstro kóme l lumìnio scintillante come l'alluminio.
lùna sf. (pl. lùne) luna, fig. cattivo umore. Lùna nuóva, kólmo de lùna, krése de lùna, kalà de lùna luna nuova, luna piena, luna crescente (I° quarto), luna calante (ultimo quarto); avé la lùna avere la luna, essere di cattivo umore. Molte sono sempre state le credenze legate all'influsso della luna, ma finora non esistono statistiche sufficienti a dimostrarne la validità. Molti dicono che le piante recise sul vòlto de lùna, al cambio di luna, si spacchino tutte longitudinalmente; che la legna tagliata dopo la luna di marzo, quando cioè è già cominciata la crescita annuale del legno, rimanga sempre umida e pesante; che il legno reciso sul calare di luna non si restringa, cosa che invece dovrebbe avvenire se tagliato sul crescere di luna; che la farina gialla macinata al cambio di luna non dia buoni risultati; che il bucato fatto durante la luna di maggio riesca molto bene, e che invece la biancheria si sfilacci tutta se lavata al cambio di luna; che i capelli tagliati sul calare di luna crescano poco, mentre crescono molto se tagliati sul crescere di luna, sul taglio delle unghie del bestiame e che influisca sui parti del bestiame e delle donne e che infine la luna abbia influsso sulle condizioni atmosferiche. Prov. lùna piéna, serén la ména la luna piena porta il sereno; prov. lùna setenbrìna, sète lùne la ndovìna la luna di settembre determina il tempo bello o brutto per i sette mesi seguenti; prov. sul kàlo de lùna se semenéa kél ké vién sóte, sul kólmo, kél ké vién sóra con la luna nuova si semina quello che deve cresce sottoterra (patate, carote), con la luna piena si semina quello che deve crescere sopra la terra (fagioli, granoturco); fig. avé la lùna de travès essere di cattivo umore; prov. òñi més se fa la lùna e òñi dì se npàra una anche se si vive a lungo, non si imparerà mai tutto, ogni giorno si impara qualcosa di nuovo.
lunàrio sm. (pl. lunàrie) calendario, lunario. In ogni casa, appeso al muro, c'era un lunario dove veniva annotato tutto ciò che doveva essere fatto o ricordato giorno per giorno, sia in famiglia che in paese; il calendario sostituiva l'attuale agenda. èi skrìto sul lunàrio kuànte òte ke són dùda a òra ho scritto sul calendario quante volte ho lavorato a giornata.
lunàtego agg. (pl. lunàtege, f. lunàtega) lunatico, bizzarro, volubile. Sésto sènpre kosì lunàtego? sei sempre lunatico?
lùne sm. (pl. lùne) lunedì. Lùne veñarà to pàre lunedì verrà tuo padre (v. dì).
luógo sm. (pl. luóge) luogo, località, appezzamento di terreno. Nte stó luógo sužiéde sènpre àlgo in questo posto succede sempre qualcosa di nuovo; fèi luógo fai un po' di posto; fèime n tin de luógo fammi un po' di posto; ke luógo te àlo točòu? quale appezzamento ti è toccato in sorte?; ka no e luógo par te qui non c'è posto per te; prov. luóge daveśìn, fémene da lontàn campi e prati è meglio prenderli più vicino possibile a casa, le donne invece è meglio trovarle distante; nte sta čàśa no e ne luógo ne fuógo non c'è posto né calore, questa non è una casa ospitale; prov. ki ke pàsa Lóže e Vódo pàsa òñi luógo vanno contestate le insinuazioni denigratorie espresse da qualcuno sulla cattiveria degli abitanti di questi due paesi. Il detto nasce per le difficoltà di entrata e uscita in questi paesi che erano protetti da due fortificazioni. All'epoca della Repubblica di Venezia, per andare oltre questi paesi si dovevano attraversare le due čùśe (passaggi obbligati) create per difesa. Ecco quindi che chi riusciva a transitare per questi due villaggi poteva tranquillamente affrontare qualsiasi altra difficoltà.
luóida sf. (pl. luóide) slitta. Slitta grande, fatta di legno duro e stagionato, con due longheroni, due pattini, lunghi almeno un metro e mezzo, curvati in su davanti alla slitta, fissati tra loro con due traverse a ponte, travesèi, una davanti e una dietro, sollevati da quattro supporti, ğànbe, e sopra quelle altri tronchetti longitudinali per appoggiare il carico da trasportare. I due longheroni curvi in avanti, i kòrne o dónte, arrivano fino ad altezza d'uomo e permettono ad un manovratore di guidare la slitta stando in piedi. La posizione è chiaramente pericolosa perché chi guida la slitta tenendola pei corni procede per discese talvolta ripide, con in mano i “kòrne” corni e alle spalle il carico. In discesa la slitta comunque deve esser frenata e il conducente indossa scarpe ferrate, le skàrpe da fèr, viene anzi spesso aiutato da altri che trattengono la slitta con delle funi, kói funàže, oppure, nei tratti ripidi e ghiacciati, si lega sotto i pattini una catena di ferro per aumentare l'attrito. La luóida d'altronde è uno strumento molto duttile perché può esser facilmente trasformata in carretto mettendo sotto i due longheroni un traverso con due ruote, čaredèl. Può esser così usata anche d'estate, non solo in discesa ma anche in piano o addirittura in salita. D'inverno viene munita di due lame d'acciaio sotto i pattini, i audìn, e diventa na luóida nferàda. Quando non c'è neve e la strada è in discesa, per far scivolare più facilmente i pattini senza lame li si unge di grasso, te i ónde ko la sónda; dove la strada è in piano sotto i pattini si fissa a morsa l čaredèl sóte i audìn che rende meno faticoso il trasporto. La luóida kol čaredèl era quindi, nei tempi passati, il mezzo di trasporto più usato, sia per trasportare legna, che fieno e foglia necessaria per la lettiera delle bestie in stalla. Serviva anche per il trasporto del letame dalla stalla ai campi e per portare fino a casa il raccolto dei campi, per distinguerla da quella feràda, veniva detta luóida mùla. Talvolta, per i carichi troppo pesanti, la luóida veniva trascinata da una mucca o da un altro animale da tiro .
luóiro sm. (pl. luóire) lepre (zool. Lepus capensis). Dì a luóire andare a caccia di lepri; čapà n luóiro prendere una lepre; śvèlto kóme n luóiro veloce come una lepre.
luóiro bianko sm. (pl. luóire biànke) lepre bianca d'alta montagna (zool. Lepus timidus).
.
luóre pron. pers. pl. (f. éle) essi, loro. Tu te pàuse e luóre laóra tu riposi e loro lavorano; no sta dì ko i luóre non andare con loro (v. pron. i, tabella pronomi).
lùpa sf. (solo sing.) molta fame. Loc. avé la lùpa o avé l màl de la lùpa avere una fame insaziabile (v. lòu).
luriòto sm. (pl. luriòte) gallo forcello (zool. Tetrao tetrix) (v. ğàl foržèl).
lùs, lùśe sf. (inv.) luce. Fèi lùs illumina un po' qui; npižà le lùśe accendere la luce elettrica; betón la lùśe nte stàla portiamo la luce elettrica nella stalla; restà žènža lùśe restare senza luce elettrica; sul pì bèl són restàde žènža lùśe sul più bello è venuta a mancare la luce elettrica (le cadute di corrente erano eventi frequenti nei paesi di montagna, fino a non molto tempo fa, indipendentemente dai temporali); lùs déi òče la pupilla.
lùśe vb. imp. (lùśe; luśèa; luśòu) brillare, luccicare. Sti séče lùśe póčo questi secchi brillano poco, si dice così quando i secchi di rame di casa erano stati lucidati male (v. sfreà).
luśerìa sf. (pl. luśerìe) luminaria, spreco di luce. Ma kè élo dùta sta luśerìa? ma che cos'è tutta questa luminaria, tutto questo spreco di luci?
luśìnga sf. (pl. luśìnge) lusinga, adescamento. Ka no e debeśuói de luśìnge qui non c'è bisogno di lusinghe.
luśingà, luśingàse vb. trans. e rifl. (me luśingéo; luśingèo; luśingòu) lusingare, lusingarsi, essere attratto. No me luśingéo non mi lusingo, non mi lascio adescare.
lùso sm. (pl. lùse) lusso, sfarzo. Àsto vedù ke lùso nte kéla čàśa? hai visto quanto lusso in quella casa?; n vestì de lùso, nòže de lùso un vestito sfarzoso, nozze sfarzose; èi fàto na mañàda de lùso mi son fatto una mangiata memorabile; kè éli dùte sti lùse? perché tutti questi inutili sprechi?
luśór sm. (inv.) luccichio. Kè élo pò dùto kél luśór su pa la Mónte? che cos'è tutto quel luccichio su a Pian dei Buoi?
lustrà vb. trans. (lùstro; lustrèo; lustròu) lustrare, lucidare. Lùstra sti séče lucida questi secchi; lùstreme n tin le skàrpe lucidami un po' le scarpe; loc. lustrà batiéi mendicare di porta in porta (v. sfreà).
lustràda sf. (pl. lustràde) lucidatura, pulitura. Ste téče a debeśuói de na bòna lustràda questi tegami hanno bisogno di essere lucidati.
lustrànda sf. (pl. lustrànde) luce abbagliante. Il termine si riferisce alla luce prodotta dai fulmini, a quella dei lampi estivi e ad altre luci intense. Àsto vìsto nsiéra ke lustrànde da séko? hai visto ieri sera che le luci abbaglianti dei fulmini prodotti dall'eccessivo secco? (v. luśerìa).
lustrànda sf. (pl. lustrànde) fig. esteriorità. L nòno sta n tin mèo, ma e sólo na lustrànda mio nonno sta un po' meglio ma è solo una cosa momentanea; e dùto na lustrànda è tutta apparenza, senza alcuna sostanza (v. luśerìa).
lùstro agg. (pl. lùstre, f. lùstra) lustro, lucido, chiaro. Ka dùto e lùstro tutto è molto pulito; l avèa i òče lùstre aveva gli occhi lucidi, bagnati di lacrime; ka de n tin vién lùstro fra poco verrà giorno; e bèlo lùstro è già chiaro, è già giorno; e nkóra lùstro c'è ancora luce, non è ancora buio; a lùstro de lùna alla luce della luna; loc. ka no se véde lùstro qui non si vede chiaro, non si vede via d'uscita, detto in situazioni difficili, anche di carattere economico.
lustrofìn avv. lucido, splendente. Tirà a lustrofìn tirare a lucido, detto di mobili, bronzi e secchi in rame. Loc. dà l lustrofìn lucidare.
luteràn agg. (pl. luteràne, f. luteràna) luterano, in senso offensivo. Detto solo a chi va poco in chiesa, chi si interessa poco di pratiche religiose e soprattutto a chi bestemmia molto. Kel là e sènpre stòu n luteràn quello è sempre stato un gran bestemmiatore.
Lùžia sf. (nome) Lucia. Prov. da Santa Lùžia l frédo krùžia il giorno di Santa Lucia, cioè il 13 dicembre, il freddo è pungente.
Lužiéta, Žiéta sf. (nome) ipoc. di Lucia.
Lùžio sm. (nome) ipoc. di Lucio.
eof (ddm 02-2009)