Dizionario della gente di Lozzo - La parlata ladina di Lozzo di Cadore
dalle note del prof. Elio del Favero - a cura della Commissione della Biblioteca Comunale
prefazione del prof. Giovan Battista Pellegrini
Comune di Lozzo di Cadore - il seguente contenuto, relativo all’edizione 2004 del Dizionario, è posto online con licenza Creative Commons attribuzione - non commerciale - non opere derivate 2.5 Italia, il cui testo integrale è consultabile all’indirizzo http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/2.5/it/legalcode. Adattamento dei testi per la messa online di Danilo De Martin per l’Union Ladina del Cadore de Medo. Per ulteriori approfondimenti è a disposizione la home page del progetto “Dizionario della gente di Lozzo” alla quale si deve fare riferimento per le regole di trascrizione fonetica utilizzate in questo progetto. Il presente file è pre-formattato per la stampa in A4.
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IL BOSCO ED I LAVORI BOSCHIVI
1 - Classificazione del bosco.
Agli occhi della società attuale il bosco appare sì, un patrimonio collettivo da conservare e tutelare, ma pur sempre un qualcosa di lontano, non ben definito, con cui non si ha troppa familiarità. In netto contrasto si può porre, con certezza, l'opinione che del bosco avevano i nostri avi e quella dei nostri nonni, a noi più vicina. Ben consapevoli di quale basilare importanza assumeva il bosco nelle proprie attività quotidiane, veniva da loro sì, salvaguardato e rispettato, ma anzitutto conosciuto. In tal senso il bosco era distinto secondo:
-la varietà delle piante
-la presenza di norme di salvaguardie e/o divieti particolari
-la produttività
La prima suddivisione era certamente la più evidente. L'intera vegetazione del bosco era sommariamente raggruppata in abetaia bósko da dàsa, lariceto da déma, faggeta da fòia o fageréido.
La seconda suddivisione prendeva in considerazione le restrizioni e le regole che le comunità di allora applicavano allo sfruttamento del bosco. Esistevano i cosiddetti boschi protetti o Vìže. Erano destinati a fini di pubblica utilità, quali le necessità di manutenzione di una chiesa, di un ponte o di una strada. Si possono citare la Vìža de Loréto e la Vìža de San Ròke che, pur non trovandosi nelle immediate vicinanze delle chiese omonime, furono destinate alle necessità delle stesse. Certe Vìže erano regolamentate nello sfruttamento del legname per evitare gli smottamenti e il formarsi di valanghe. Erano le piante sotto le strade ad essere particolarmente vincolate. A mo' d'esempio citiamo testualmente un passo tratto dai Laudi di Lozzo (vedi art. 50), ossia: "Non ardisca alcuno tagliar alcun legno sotto le strade lontan cinque passi, sotto pena de soldi cinque per legno, e perde il legno". Le stesse Vìže erano distinte ulteriormente in Vìže seràde e Vìže vèrte. Le prime non erano aperte al passaggio del bestiame, mentre le seconde, ossia i boschi che da Kornón si estendono fino a Moleniés de sóra, erano utilizzate per raggiungere i pascoli di Sovèrña. Da ultimi, ma non per questo meno importanti, c'erano i bóske de làudo che, solitamente a ridosso dell'abitato, erano utilizzati gratuitamente dai regolieri per il rifabbrico. Annualmente si assegnavano a sorte i lotti di legna da ardere, con divieto assoluto di farne qualsiasi commercio, anche sotto forma di carbone.
La terza suddivisione concerneva la produttività del bosco. Aveva un'importanza basilare e si distingueva in tre differenti classi, la I, II e III. La differenza tra le stesse era data dal rapporto tra la qualità del legname, la praticità del taglio e la difficoltà di avvallamento dello stesso. Il legno d'alta montagna o lén de mónte, ad esempio, era qualitativamente migliore, però da singole piante si ottenevano meno pezzi o tòke, piuttosto che da piante cresciute a quote inferiori. Tutto ciò concorreva a farlo collocare nella terza classe ovvero la meno pregiata. Al contrario l'elevato rendimento, unitamente ad un'ottima posizione e ad un trasporto meno oneroso, pur non presentando un'elevata qualità, collocava il legno di bassa quota nella prima classe. Dal legname meno pregiato si ricavava la carbonella utilizzata dai fabbri, fàure, oppure venduta a Venezia. La produzione della carbonella avveniva anticamente in località la Poiàta che, di fatto, ne ha tratto il nome.
2 - Stima delle piante – Martellatura.
Ogni qualvolta che era previsto il taglio in una zona, si eseguiva dapprima la stima delle piante in piedi. Ciò permetteva di pianificare i tagli evitando lo snaturarsi dell'ecosistema del bosco ricavando comunque dallo stesso il maggior utile possibile. Per la misurazione, effettuata pianta per pianta, si utilizzava un attrezzo simile ad un grosso calibro, il cavalletto o fèr da meśurà. Agli inizi del novecento era costruito in legno, fu poi sostituito da quello in metallo. Come unità di misura si utilizzava il sistema metrico decimale. La misurazione avveniva a monte della pianta, ad un'altezza di circa 2 m e quindi la si contrassegnava con un simbolo o marèla onde evitare ripetizioni e risultati inesatti. Chi misurava detraeva la corteccia e stimava direttamente l'intera pianta. Alla fine del conteggio si poteva già valutare la reale entità del taglio. Questa stima, certamente attendibile, era il frutto di anni d'esperienza sul campo. A Lozzo questo metodo fu utilizzato fino agli anni ottanta da alcuni esperti locali (per le varie misure si consulti la tabella alla fine della scheda).
Nella zona del taglio o lòto de bósko, si contrassegnavano tutte le piante da abbattere. L'operazione era detta la martelàda. Infatti, alla base delle piante ritenute mature o oltre il diametro minimo previsto, si asportava un pezzo di corteccia e con uno speciale martello veniva apposto un segno convenzionale che indicava l'operatore. Questa incisione rimaneva visibile per molti anni finché la ceppaia non si era totalmente decomposta. Le piante erano ulteriormente contrassegnate asportando, ad un'altezza da terra di circa 1,5 m, due pezzi di corteccia sui lati opposti del tronco. Si diceva che le piànte veñìa spečàde. Ciò permetteva, anche a distanza di mesi o anni dalla martelàda, un veloce riconoscimento delle piante da tagliare, dato che il taglio non sempre seguiva immediatamente la martelàda.
3 - Conoscenze atmosferiche.
La conoscenza dei periodi e delle condizioni ambientali necessarie al taglio erano fattori di importanza basilare e frutto di esperienze secolari. Il taglio si faceva nel mese di maggio durante la fase crescente della luna, ossia sul krése de lùna. Bisognava necessariamente anticipare il plenilunio, ossia prima che il legno si gonfi di linfa iniziando la crescita annuale, ñànte ke le piànte dése n amó e ñànte ke l lén skomínžie a muóve. Se il taglio non era eseguito in primavera, si doveva attendere la luna d'agosto, ke se fàže la lùna de aósto. Il legname tagliato prima di questo periodo si tingeva di sfumature scure di colore verde oliva, quasi nere, scadendo di qualità. Si diceva che l se vestìa da prèe. I boskadór erano sempre attenti all'evolversi del tempo, ma non erano mai pienamente fiduciosi delle giornate di bel tempo, infatti portavano appresso una pelle di capra conciata da mettere sulle spalle a mo' di mantella, detta la pèl. Ciò permetteva loro di ripararsi parzialmente anche lavorando con tempo avverso. Da queste consuetudini nascono i proverbi come l tènpo e bèl, ma par èse pì segùre, toléve su la pèl o kuàn ke e bèl toléve su la pèl, kuàn ke l pióve faśé kè ke volé. In antitesi per taluni lavori, quali il trasporto dei tronchi, dì a strožà tàe o l'avvallamento degli stessi, dì a parà dò tàe pa i ğòu e dorà la rìśina, la pioggia non troppo intensa era invece un ottimo aiuto.
4 - Sistemazione ed alloggio sul luogo del taglio.
Spesso quando il luogo del taglio distava molto dal paese, la squadra dei boscaioli si tratteneva sul posto per diversi giorni fino al sabato sera, per poi scendere a valle. Era d'obbligo, infatti, trascorrere la domenica con la famiglia e soprattutto santificare la festa, dì a mésa. Se alcune feste religiose cadevano durante la settimana, i boscaioli scendevano in paese per andare in processione, n portesión, per ripartire quindi il mattino seguente. I ripari si costruivano con le cortecce o skòrže, ottenute dalla pulitura del tronco. Le cortecce ottenute erano larghe 1-2 metri e lunghe anche 6-7 metri. Per l'asportazione si utilizzavano dei rami d'abete appuntiti creati sul posto, detti skarpiéi. Con le piccole piante o con le cime, žimà, si faceva il telaio, l kastèl o telèr. Ai lati le traverse impedivano che le cortecce s'inarcassero, ke le skòrže fáže pànža. Per ultimo si preparava il giaciglio, la dàga, che si costruiva con dei rami d'abete, ràme de dàsa. Questi rudimentali ripari, terminato il lavoro, rimanevano in loco per successivi utilizzi, ma spesso il legno utilizzato veniva trasportato a valle e utilizzato come combustibile.
5 - Taglio delle piante.
Incominciava dunque il taglio vero e proprio degli alberi, l tàio. Anzitutto si abbattevano tutte le piante, taiàde dal pè e solo in un secondo momento si iniziava la lavorazione, ovvero se le laurèa. Anticamente il taglio delle piante non era fatto con la sega, bensì con l'ascia, manèra strénta o manèra da skavažà. Dapprima si effettuava un taglio direzionale, incisione che permetteva di impostare la direzione di caduta, se i darèa la stràda. Poi due boscaioli con l'ascia incidevano ritmicamente il tronco rispettando la direzione di caduta. Dopo la IIª Guerra Mondiale fu introdotto il siegón, una sega molto grande a due impugnature laterali, che si utilizzava in coppia. Il taglio delle piante tramite l'uso della sega si faceva a fasi successive. Infatti man mano che la sega entrava all'interno del tronco era rallentata fino a bloccarsi, a causa della pressione esercitata dal peso della pianta, ossia l siegón serèa. Venivano dunque inseriti uno o più cunei, kói, che oltre a creare lo spazio necessario affinché la sega potesse nuovamente scorrere, mantenevano e guidavano la direzione inizialmente scelta per la caduta. Ci si aiutava inoltre con una grossa fune detta sóga, alla quale era attaccato un uncino, fér da piànte, che si ancorava sulla parte alta della pianta. Il gran rispetto per il bosco, da parte della gente di un tempo, va nuovamente sottolineato ricordando che il novellame cresciuto attorno alla pianta da tagliare, veniva legato con una fune e piegato provvisoriamente in disparte, affinché non venisse distrutto durante la caduta. Le piante si tagliavano a circa 25 cm dal terreno. La parte rimanente, žòka, manteneva il terreno compatto evitando il crearsi di smottamenti o bóe. Si modellava appositamente a forma di catino, de na kòpa, per favorire in tal modo l'azione dell'acqua piovana che, depositandosi, accelerava la decomposizione.
6 - Lavorazione delle piante.
Uno strumento caro ai boscaioli, giacché rendeva più spedito ed efficiente lo spostamento dei tronchi da trattare, era l žapìn, un ferro molto stretto con una punta ad uncino e lungo manico. Anche gli scarponi, già dotati di quattro punte fisse o feréte, erano muniti d'ulteriori ferri mobili a sei punte, detti grìfe, che si applicavano mediante cinghie. Permettevano una sicura presa del piede e la certezza di poter trascinare i tronchi, anche camminando sugli stessi, in modo veloce e sicuro. Dovevano essere affilati alla perfezione poiché gli spostamenti sui tronchi, rendevano questo lavoro particolarmente pericoloso. Scherzosamente si diceva che i grìfe dovèa èse spižàde polìto se nò se dèa kol ku n su. Una volta abbattuta, la pianta era privata, con l'uso della manéra pilóna, della ramificazione ed in seguito con la manèra strénta sezionata, ovvero skavažàda. Dalla pianta si ottenevano vari pezzi, quali la tàia, l mul, la bóra, la žìma e l žimà. La tàia era la parte "ottima" della pianta. Era solitamente di lunghezza pari a 4,20 m. Se la pianta presentava dei difetti si sezionavano dei tronchi di varie misure, detti mùi, sempre più corti della tàia. La tàia, l mul e la žìma erano utilizzate in segheria. Nel caso l'interno della base della pianta fosse stato marcescente si tagliavano uno o più pezzi, detti bóre, che si utilizzavano come legna da ardere. Lo stesso žimà era usato come legna da ardere. Durante la seconda Guerra Mondiale e nel periodo immediatamente successivo i žimà furono invece venduti alla cartiera di Faé-Fortogna.
Anche gli skiànti, piante in piedi con buona parte della cima spezzata dalla neve o dai fulmini, erano abbattuti e lavorati. Secondo la lunghezza della pianta si ottenevano dei tronchi con le seguenti misure: tàia (4,20 m), žàpol (5 m), diśdóto (6 m), rul (8 m), čàve (10 m). Quest'ultima in particolare era usata come través per la costruzione della rìśina. Alcune piante scelte e molto lunghe, 20 m e anche più, dette anténe, erano portate a valle intere. Le due ultime misure menzionate si ricavavano solo su commissione, giacché la loro lavorazione e il loro trasporto erano particolarmente complicati ed onerosi. Ai tronchi, con la manèra pilóna, si asportava la corteccia e si arrotondavano le estremità, le veñìa skusàde e pilonàde. Quest'ultima operazione facilitava il trasporto ed evitava lo staccarsi dal tronco di pezzi o sguàrž, rendendolo meno pregiato. Un boscaiolo lavorava giornalmente circa 25-30 tronchi. Tutto il legname lavorato era radunato in un unico posto per l'avvallamento. L'operazione era detta deśboskà. Il legname abbattuto, dopo la lavorazione, era lasciato sul posto fino ad autunno inoltrato, affinché durante l'estate si stagionasse. Il legname, dopo essersi asciugato, s'induriva e si alleggeriva, l èra pì bon parkè l se serèa e l veñìa pì lediér e quindi veniva trasportato con maggiore facilità.
7 - Pulitura del bosco.
Terminato il lavoro dei boscaioli era d'uso comune ripulire la zona del taglio. L'operazione era detta desfratà. Solitamente era fatta dagli stessi proprietari del bosco, vista l'estrema importanza della legna da ardere. Si mirava sia a ripulire il bosco dalla ramaglia, che a raccogliere ogni scarto della lavorazione, nulla infatti andava sprecato. Le tàpe, prodotte dalla pilonadùra, la ramàda, ossia i rami veri e propri, i krònkui e le skòrže, prodotte dalla scorticatura, le bóre e infine i žimà erano tutti usati come combustibile. La corteccia si toglieva per permettere una buona stagionatura e conservazione, la ramàda veñìa skusàda. La fràta, scarto della ramificazione, veniva raccolta in piccoli mucchi, kogolùže e lasciata marcire. Se invece il taglio era stato fatto in un prato, si ammucchiava e si bruciava. Anche le tàute, ossia le ceppaie degli alberi sradicate, erano usate come legna da ardere. Spesso la legna era lasciata sul posto, allestendo delle cataste tàse, e durante l'autunno o la stagione invernale portata a valle.
8 - Misurazione del legname abbattuto.
Prima di avvallare il legname, si procedeva alla misurazione, detta meśurà le tàe. A tal fine si usavano, nei tempi passati, le kanàule, dei ferri ad U che ancor oggi si possono ammirare nella sede comunale. Ce n'erano di diverse misure quali: pìžola, žìma, VIII (otàva), X (dèžima), XII (dódeśe), XV (kuíndeśe). L'unità di misura usata era l'ónža, corrispondente a 1/12 di piede. Le estremità delle kanàule si appoggiavano n kóda, ossia sulla parte più stretta del tronco, se passavano oltre, significava che il tronco apparteneva alla classe inferiore. Questo metodo di misurazione fu adottato sino alla fine dell'ottocento, quando subentrò il cavalletto. I dati dei tronchi man mano misurati si annotavano su di un apposito foglio suddiviso in classi diametrali. Quest'ultima e delicata operazione era detta teñì tèsera ed era solitamente assegnata ad un uomo accorto e preciso.
Un altro strumento indispensabile a chi si recava sul luogo di misurazione, da ki ke dèa su l séño, era il prontuario. Era un testo che permetteva, conoscendo il diametro del tronco, di ricavarne la cubatura e di concludere, ancora sul posto, la vendita del legname. Spesso il taglio era eseguito per diversi proprietari e i tronchi abbattuti venivano contrassegnati con simboli con il fér da señà. Detti simboli erano le iniziali del nome, cognome e soprannome del proprietario, talvolta precedute dal séño de čàśa. Il séño de čàśa era attribuito ad ogni regoliere e si incideva, non solo sui tronchi, ma pure sulle piante in piedi, specialmente su quelle confinarie. Si incideva inoltre sugli arnesi da lavoro e si ricamava sulla biancheria. Il séño de komùn era una X, dal quale deriva il verbo nkrośà le piànte, vale a dire contrassegnare con una croce le piante di proprietà comunale.
9 - Avvallamento del legname.
Il legname minuto ad autunno inoltrato era trasportato a valle con la slitta, luóida. L'operazione era detta tirà apède le léñe. Il carico si assicurava con delle corde o funàže. Spesso quando il carico era di notevoli dimensioni per l'equilibratura, durante la fase di sistemazione del carico stesso, si usava una fune detta l kòntra. Sulla parte anteriore appoggiata alla legna c'era la nàvia, ossia un'imbottitura fatta con rami d'abete, atta a proteggere la schiena del conducente. Come metodo di frenatura si usava il ràit, che costruito con del filo di ferro e/o filo spinato si utilizzava sul terreno anche se ghiacciato o con carichi non troppo pesanti, ma non con la neve. Era posto sóte la dónta e mantenuto fermo con del fil di ferro legato alla parte anteriore della luóida. Per l'avvallamento di tronchi ad uso familiare, siccome solo pochissime famiglie possedevano un cavallo, si utilizzava l kòčo a màn. Numerose persone che, per necessità, usarono questi strumenti da lavoro, nell'udire il nome di un impervio pendio o batèl, quale la velmaréža de Tamarì o la čòpa de Matìo, rivivranno molti ricordi di gioventù.
Due erano le zone, qui di seguito descritte, nelle quali lo sfruttamento del legname era molto intenso: Val Lonğarìn e Čanpeviéi. Si distinguevano per la conformazione del terreno e di conseguenza per l'adozione di diversi espedienti lavorativi. La Vàl Lonğarín è una lunga valle, a nord del paese, culminante al Krépo dei Foržiéi. Essa costituisce il punto d'arrivo di numerosi canali naturali che, a partire dal Ğóu Gran, si susseguono uno all'altro lungo il versante sud della valle. Essi sono: il Ğàvo de la Petorìna, il Ğàvo Pàla de la Pòrta, il Ğàvo Sàuto de l Čavàl e il Ğàvo de le Tàpe. Sfruttando questa predisposizione naturale del terreno, ossia i lavinàs, i ğòu o i ğàve, si evitavano sia danni alle proprietà che al legname stesso rendendo più celere il trasporto. I tronchi fin qui avvallati erano ammucchiati in cumuli detti komòi o tasói. Le operazioni attinenti l'avvallamento del legname erano dette fèi la kondóta de le tàe.
Da qui erano trasportati fino in località Kòl de Vialóna, attraverso un singolare espediente detto la rìśina. Questa costruzione si utilizzava quando le valli, troppo strette e di scarsa pendenza, non permettevano altro tipo di trasporto, oppure quando c'erano dei difficili attraversamenti dei torrenti. La particolarità consisteva nel fatto che si sfruttava lo stesso legname che doveva essere avvallato. La rìśina si costruiva fino al luogo in cui si poteva facilmente giungere con i cavalli e le slitte. Le riśine erano di due tipi: la rìśina seràda e la rìśina a kònža e skànpa. La scelta di uno dei due tipi dipendeva dalla quantità di legname da trasportare. Con grandi quantità si realizzava la rìśina seràda, ossia eretta a regola d'arte, mentre per quantità minori, si preferiva la rìśina a kónža e skànpa. Quest'ultima era costruita in qualche tratto del percorso seguito dal legname, solitamente in particolari e difficili passaggi. Nei tratti più semplici invece la rìśina appoggiava direttamente sul terreno ed era saldata con delle piante corte o bailói. Nei brevi tratti di rìśina il tronco riacquistava velocità, superando in tal modo i tratti pianeggianti che seguivano.
La descrizione seguente riguarda la costruzione di un tratto della rìśina seràda, nel delicato passaggio sopra un torrente. Innanzitutto si appoggiavano due tronchi, travès, da una sponda all'altra. Si costruiva ora la base, detta l fónde de la rìśina. In relazione alla larghezza desiderata si utilizzavano più o meno tronchi. Le estremità dei tronchi erano dentellate, per far sì che meglio si adattassero ai tronchi trasversali. Si aggiungevano quindi i supporti per le sponde, detti bailói. Questi, inclinati di circa 150° rispetto a l fónde de la rìśina, s'incrociavano sul letto del torrente e si saldavano con le pietre dell'alveo stesso. Lateralmente alla base, si ponevano altri due tronchi detti bastìn, che si fissavano con dei paletti o sorìž. La struttura si saldava utilizzando dei cunei di faggio, péndui de lén de fagèra che s'incuneavano nei fori precedentemente ricavati nelle traverse. Non essendo i tronchi perfettamente cilindrici si formavano delle fessure sulla base. Delle speciali biette, dette čáve, erano messe tra i vari tronchi, ottenendo così una base uniforme. Da ultime si costruivano le sponde, formate da uno o due tronchi. Spesso qualche curva della riśina abbisognava di un arrangiamento, detto la rižàda. Consisteva nell'aggiungere, alla sponda esterna, altri tronchi in modo da renderla più alta e sicura.
Per aumentare la velocità dei tronchi nei punti pianeggianti, la rìśina era cosparsa d'acqua, usando dei rami d'abete o in alternativa si attendevano periodi piovosi. Un altro espediente era cospargere brevi tratti con del sego o séu. D'altra parte in qualche curva, data l'alta velocità, i tronchi dovevano essere rallentati. Si utilizzavano due metodi di frenatura. Usando la neve si creava un muro contro il quale il tronco sbattendovi perdeva parte della sua velocità. Più raramente si usava la terra, vista la difficoltà di reperirla nella stagione invernale. A lavoro ultimato, gli stessi tronchi adoperati per la costruzione della rìśina, venivano man mano smontati, incanalati nella restante e fatti scorrere a valle. L'ultima riśina nel comune di Lozzo fu costruita durante l'inverno 1950-51 in località Val Lonğarìn.
Dal Kòl de Vialóna il trasporto avveniva con una slitta da carico, corta e robusta, detta kòčo. Il kóčo era attaccato ad una pariglia di cavalli, detta kùbia, che sfruttando il terreno ghiacciato, riusciva a trascinare circa 35-40 tronchi. I cavalli erano ferrati con i ferri da ghiaccio, fèr da ğàža. Si caricavano anzitutto tre o quattro tronchi che appoggiavano con un'estremità sul travès o traversa della slitta, mentre l'altra estremità rimaneva appoggiata sul terreno. Si assicuravano alla traversa con delle catene saldandoli usando dei cunei. Gli altri tronchi appoggiati sul terreno erano agganciati l'un l'altro per mezzo degli stròž e formavano una lunga fila detta koróna de tàe. Gli stròž erano formati da due piccole biette unite da una catena.
La parte centrale della catena era munita di uno snodo che permetteva ai tronchi di ruotare senza staccarsi dalla koróna, evitando inoltre la rottura dello stròž stesso. Siccome l'innesto causava delle fenditure, facendo scadere di qualità il tronco, si era soliti fare una tacca nte l čòu de la tàia. Questa incisione era detta skalfaròto. Qui s'inseriva lo stròž, che provvisto di lama o mèla, entrava senza rovinare il tronco. Siccome la koróna era formata da due file parallele di tronchi, si usavano delle klàmere o klànfe, che impedivano ai tronchi stessi di allontanarsi lateralmente. Per il trasporto delle piante piccole, ròba menùda, si adoperavano le čadéne da ranpìn. Erano formate da un grosso anello che faceva capo a diverse catene, alle cui estremità vi era un gancio da inserire nel tronco. L'anello invece si attaccava al cavallo. Se talvolta il percorso presentava dei tratti troppo ripidi, i tronchi erano frenati con una catena di forma quadrata, detta kulàž, che si legava attorno ai tronchi stessi. Normalmente era posta a metà della koróna.
L'altra zona interessata dallo sfruttamento del legname era Čanpeviéi. Valle amena, che dista diverse ore di cammino, non sempre agevole, dall'abitato di Lozzo. Là sorge tuttora l'omonimo kaśón, che fu inizialmente adibito a malga per i buoi durante l'alpeggio1. Negli anni 1950-60, data la diminuzione del bestiame, fu esclusivamente adibito a ricovero per i boskadór. Essendo il terreno essenzialmente pianeggiante, il legname abbattuto era trascinato o strožòu, con l'ausilio dei cavalli attraverso delle strade boschive dette begužère. Il fieno per il sostentamento degli animali era falciato in località Pian de la Stòrta o in Valpèlego. Talvolta veniva acquistato da privati in località Kòl Négro e Kol Burğón. Le begužère sopraccitate attraversavano spesso delle zone paludose, i palús, che creavano problemi al trasporto. Per evitare ciò questi tratti si pavimentavano, ad esempio la località l Pònte de Bernardìn, con del legname di scarsa qualità. Le travi erano poste una dietro l'altra nel senso della larghezza, creando una superficie piana ed uniforme, che evitava lo sprofondamento dei cavalli. Si diceva che le begužère veñìa čaleàde, ancora oggi se ne possono vedere dei tratti. Ciò è possibile perché il legname, messo a contatto con il terreno, s'impregnava d'acqua mantenendosi integro per decenni ovvero l se stonfèa. I tronchi erano trascinati fino in località La Stòrta, qui incanalati nte l Lavinà de le Iśole o nte l Ğavón e spinto a valle fino ad arrivare direttamente nel fiume Ansièi allora ricco d'acqua (il lago non esisteva ancora). Da qui era fluitato o nnagòu fino alle segherie. Durante la permanenza nella zona di taglio, i boscaioli erano riforniti di provviste alimentari da alcune donne, che partendo dall'abitato di Lozzo con le gerle cariche, i déi čareàde de damañà e percorrendo le località della Ruóiba, Kornón, Moleniés, Faé, l Čavalón, Kròda Bàsa e Kròda àuta arrivavano a destinazione dopo molte ore di faticoso cammino. Neppure il ritorno era agevole, infatti, non ritornavano mai con le gerle vuote, bensì cariche di cortecce e legna, skòrže e léñe. Dalla zona di Aržìžo, anch'essa come Čanpeviéi in gran parte pianeggiante, il legname era radunato in località La Śvóita e da qui spinto fino alla Poiàta, attraverso l lavinà dei Čavài. Da qui era trasportato con il carro, l čar, fino n Kornón e poi trascinato lungo l'antica strada che scendeva ai Tre Ponti e da qui trasportato nuovamente con il carro fino alle segherie.
Durante la stagione invernale si adoperava un altro mezzo di trasporto. La slitta usata, detta čaréžo, era formata anteriormente dal normale kòčo e posteriormente al timone, lungo circa tre metri, da un altro kòčo sprovvisto d'impugnature o kòrne. La slitta era nferàda, in altre parole dotata di lame d'acciaio poste sotto gli audìn. Come freno, per diminuire l'eccessiva velocità lungo le discese, si utilizzavano delle catene sotto i pattini, i rožéte. I tronchi si legavano con delle catene che facevano capo a degli anelli o sčàre. Il carico medio si aggirava all'incirca sui 10-15 tronchi.
10 - Trasporto in segheria e squadratura del legname.
Una volta in paese, nell'odierna piazza IV Novembre, i tronchi erano accatastati, kanželàde e suddivisi per proprietario. Da qui si caricavano sui carri per essere trasportati alle segherie di Cimagogna o a quelle paesane lungo il Rio Rin, ossia la siéga dei Pelegrìni situata in Bróilo, la siéga de Komún, situata sotto l'ex chiesa parrocchiale e quella dei Karùli lungo il Rio Rin. Quella comunale era stata costruita per contribuire al ripristino edilizio del paese dopo l'incendio del 1867. L'operazione di trasporto era detta karižà o karadà le tàe. La quantità di legname trasportata da un carro era detta karadàda. Nei Laudi di Lozzo sono indicati in modo dettagliato i periodi ed i luoghi per l'uso del carro da trasporto2. Se il carico era molto pesante e le strade non perfettamente agibili a causa delle forti piogge o nevicate, ai primi due cavalli si aggiungevano altri due, formando così una quadriglia. Questa operazione era nota come kuatrà i čavài. Non tutto il legname era trasportato in paese e venduto grezzo. Una parte di esso, la travadùra, era sistemata nelle immediate vicinanze, in località La Krós, La Strénta e La Làrga. Era accatastato nti stàžie e qui lasciato durante l'inverno. In primavera, da isùda, i boscaioli si recavano in quelle località per iniziare il lavoro di squadratura. Le travi erano divise secondo la lunghezza e lo spessore e sistemati in cataste dette čadàstre.
11 - Fluitazione del legname.
Il legname che non si lavorava in loco era fluitato verso la pianura. In una località del paese situata nei pressi dell'odierno cimitero, ancor oggi detta i Lavinàs, si avvallava il legname nel fiume Piave e fluitato fino al žìdol de Peraruò. L'uso di questa semplice ma efficace struttura è antichissimo e il suo nome, per quanto noto, si legge per la prima volta in un documento del 1380. Erano in sintesi delle chiuse artificiali costruite sopra un fiume con traverse di legno e pali verticali. Servivano ad arrestare il passaggio dei tronchi fluitati. I žìdoi in Cadore erano numerosi, ma quello più vicino a noi si trovava tra le rive del fiume Piave dove è sorto il ponte della strada militare tra Lorenzago e Domegge, detto ancor oggi "pònte de l z&ìdol".
La fluitazione di solito si faceva sul Piave, ma anche sull'Ansiei, il Padola e il Boite. C'erano due menàde: quella grande da maggio a dicembre e quella piccola o menadòla da febbraio a marzo. L'operazione era diretta dal kapomenàda ed eseguita dai menadás, i quali armati di una stanga arpionata detta lanğèr, rimettevano nella corrente del fiume i tronchi che si erano arenati. Spesso il legname, durante la fluitazione, era fermato nelle sère. Erano degli sbarramenti sia naturali che artificiali. In località Sótepiana esisteva una sèra, costruita dal commerciante di legname Čamulèra, per fermare il legname utilizzato nelle segherie sovrastanti. Verso il 1928 si fece una tra le ultime grandi menàde del comune di Lozzo. In occasione della costruzione delle scuole elementari furono abbattute in località Valsàlega circa 6000 piante, ottenendo circa 21.000 pezzi, che furono fluitati fino a Perarolo e qui vendute.
Verso gli anni '30-'40 si ebbero, nei metodi di lavorazione e in special modo nel trasporto del legname, delle importanti innovazioni. Due furono i principali mutamenti: l'introduzione della teleferica che prese il posto della rìśina e la sostituzione della fragile ruota di legno con quella in ferro e gomma piena dei mezzi di trasporto. Verso gli anni '30 anche la menàda non poté più essere eseguita in seguito allo sfruttamento idroelettrico dei corsi d'acqua e la contestuale costruzione delle dighe sull'Ansiei e sul fiume Piave. Da allora in poi parte di quei criteri, che resistevano immutati da secoli, furono inesorabilmente abbandonati, segnando l'epilogo di un'antichissima e suggestiva arte lavorativa.
Concludo questa mia panoramica ricordando che, nonostante gli impervi luoghi unitamente al non sempre favorevole clima della terra cadorina, i nostri vecchi fieri della loro secolare unità e indipendenza, circospetti di fronte a forestiere intrusioni, hanno saputo trarre da essa il massimo profitto senza nulla sconvolgere. Ciò serva da monito per il rispetto di quell'inestimabile eredità che quotidianamente possiamo ammirare.
12 - Classificazione per misura delle piante in piedi.
Le prime quattro misure sono riferite a piante giovani e al novellame, non sfruttate durante i tagli.
Pìžol : fino a 50 cm di altezza
Braśíl : fino a 5 cm di ø
Rémo : da 5 a 10 cm di ø
Stangón : da 10 a 12.5cm di ø
Pìžola : da 12.5 a 16 cm di ø
Žìma : da 16 a 21cm di ø
Žìma pìžola : da 21 a 27 cm di ø
òto (VIII) : da 27 a 33 cm di ø
Diéśe (X) : da 33 a 39 cm di ø
Dódeśe (XII) : da 39 a 48 cm di ø
Kuìndeśe (XV) : da 48 cm di ø in poi.
Autore della scheda:
Da Pra Dante Falìse, nato ad Auronzo di Cadore il 06.12.1966
Fonti: Zanella Valentino Madèrlo nato a Lozzo di Cadore, 30.09.1911 - 23.03.1995, Calligaro Giovanni de le Pàule nato a Lozzo di Cadore il 09.08.1921, Barnaba Baldovin Brentèle nato a Lozzo di Cadore il 02.09.1926, Rizieri Marta "Čéri Buràska" nato a Lozzo di Cadore il 23.02.1939.
eof (ddm 02-2009)