Note al testo "Attività pastorali nell'area del Centro Cadore"

[1] Per considerazioni generali sul Cadore e sull'identificazione geografica e storica della regione si veda Alessandro Cucagna, Limiti e personalità del Cadore,' La geografia nelle scuole', novembre- dicembre 1969.

[2]Giovanni Merlini distingue il Cadore occidentale in cinque zone distinte morfologicamente: Conca di Sappada, Comelico, Valle dell'Ansiei, Oltrepiave, Medio Cadore. G. Merlini, Cadore occidentale, , Lo spopolamento montano in Italia. Le Alpi Venete, vol. IV Roma Istituto Nazionale di Economia Agraria, 1938, Roma, Tipografia Failli.

[3] Elio Migliorini – Alessandro Cucagna, La casa rurale nella montagna bellunese, Firenze, Leo S. Olschki Editore 1969, pag. 194

[4] Francesca Zadra, Il Cadore monografia geografica, Tolmezzo, Stabilimento Tipografico G. B. Ciani, 1915.

[5] L'invaso è stato creato, per lo sfruttamento idroelettrico, nel 1950.

[6] Eliseo Bonetti, Alcune caratteristiche dell'insediamento umano nel medio Cadore, Udine, Del Biaco Editore, 1950. La sponda sinistra del Piave più vicina al fiume, presentava anch'essa dei piccoli terrazzamenti, utilizzati un tempo per il pascolo o il taglio dell'erba e su cui si trovavano diversi fienili e stalle oggi ricoperti completamente dalle acque del lago. La riduzione delle zone di pascolo e agricole dei fondovalle, che spesso rappresentavano le aree più produttive, comportò pesanti conseguenze anche per l'economia contadina. Franca Modesti, Emigranti bellunesi dall'800 al Vajont, Milano ,Franco Angeli, 1987.

[7] Elio Migliorini – Alessandro Cucagna op. cit. pag. 197.

[8] Elio Migliorini – Alessandro Cucagna op. cit. pag 200.

[9] A cura dell'Istituto Storico Bellunese della Resistenza, Storia contemporanea del Bellunese, Feltre, Libreria Pilotto Editrice, 1985, pag. 287-288.

[10] Elio Migliorini – Alessandro Cucagna, op. cit. pag. 189.

[11] Sulle condizioni climatiche e il regime pluviometrico del Cadore si veda Giovanni Calafiore, Il Cadore nella geografia del turismo, 'Geografia', Roma 1979, n. 4, pag.168.

[12] Elio Migliorini – Alessandro Cucagna, op. cit. pag. 199.

[13] Eliseo Bonetti, op. cit., pag. 9.

[14] Vedi i 12° e 13° censimento generale della popolazione, Fonte I.S.T.A.T.

[15] Ottone Brentari fa una breve descrizione dei paesi del Cadore. Fornisce per ciascuno di essi il numero di case e distingue tra case nuove di muro e case di legno, vecchio tipo cadorino. Si vede dunque come la maggior parte dei paesi, a partire dalla metà del secolo scorso, fossero stati ormai in parte modificati nella loro struttura urbanistica e come le case vecchio tipo cadorino fossero ovunque numericamente inferiori a quelle completamente in muratura. Cfr., Guida Alpina del Cadore, Bassano, Tipografia Sante Pozzato, 1886. (Riedizione anastatica, Bologna Atesa, 1981) La ricostruzione di singole case o di intere borgate dei paesi del Cadore era la conseguenza dei frequenti incendi che si propagavano e devastavano i centri. A partire dalla metà del '800 i Comuni provvidero alla stesura di Regolamenti edilizi per disciplinare la ricostruzione dei villaggi e delle abitazioni; i disciplinari contengono norme precise riguardanti i materiali e i metodi da utilizzare. Nel Piano disciplinare ed economico per la ricostruzione dei villaggi componenti in Comune di Vigo si legge: 'Tutte le case e i fienili dovranno essere ricostruiti dalla fondamenta allo stillicidio di muro a cemento…' art. 6 'Le case saranno composte da sei, quattro e due locali in piano terra, sempre però con ingresso separato. Le stanze avranno le dimensioni in quadro di metri 4, le loggie avranno la larghezza di metri 3, 2:50 e 2, larghezza che si applicherà in base al numero dei locali in piano-terra e del bisogno delle singole famiglie' (art. 4 e 6, cap. II) Archivio Privato Laggio di Cadore.

[16] Elio Migliorini – Alessandro Cucagna, op. cit., pag. 204-205.

[17] Eliseo Bonetti, op. cit., pag. 10.

[18] Alessandro Cucagna, Note sull'evoluzione morfologica di un centro alpino del Cadore, 'Rivivista Geografica Italiana', LXIX, 1962.

[19] Eliseo Bonetti, op. cit., pagg. 12-13. Dello stesso autore si veda, I tabià del Medio Cadore, Estratto dagli 'Atti del XV Congresso Geografico Italiano', Torino, I.T.E.R., 1951.

[20] Luciano Lago, I 'colonelli': un'antica forma di regolazione collettiva del territorio nell'organismo storico cadorino. Contributo alla conoscenza dei valori storici nel paesaggio della montagna veneta e friulana, Trieste, Istituto di Geografia, 1974.

[21] Eliseo Bonetti, L'Oltrepiave e il Medio Cadore. Studio di comparazione geografico ed economico, Trieste, Tipografia Litografia Moderna, 1955, pagg. 35-44 .

[22] Eliseo Bonetti, L'Oltrepiave e il Medio Cadore…,op. cit. pagg. 32-35.

[23] Eliseo Bonetti, Alcune caratteristiche dell'insediamento umano nel Medio Cadore, op. cit.pag 14.

[24] Eliseo Bonetti, L'Oltrepiave e il Medio Cadore, op. cit., pag 34.

[25] Giovanna Brunetta, Aspetti demografici ed economici del Cadore dopo il 1931, Padova, Tipografia Antoniana S.p.A. 1975, pag. 46, fig. n. 10.

[26] Elio Migliorini – Alessandro Cucagna, op. cit , pag. 200.

[27] Nota non presente.

[28] L'impiego di animali per l'aratura, il trasporto di concimi, il trasporto di terra e dei prodotti non era molto diffuso in Cadore a causa probabilmente delle pendenze dei terreni su cui si trovavano buona parte delle zone agricole e per la scarsa estensione delle proprietà.

[29] Antonio Barpi, La Pastorizia in Cadore, Pieve di Cadore, Tipografia Tiziano, 1876. Francesca Zadra, Il Cadore monografia geografica, Tolmezzo, Stabilimento Tipografico G.B. Ciani, 1915.

[30] Giovanni Merlini, op. cit. Il Brentari indica come prodotto principale del paese di Lozzo il foraggio. Ottone Brentari, op. cit., pag.118.

[31] Sulla proprietà regoliera in Cadore c'è un'ampia bibliografia; si rimanda in particolare a : Francesco Schupfer, Il Cadore i suoi monti e i suoi boschi, Roma, Tipografia del Senato, 1912; Giandomenico Zanderigo Rosolo, Appunti per la storia delle Regole del Cadore nei secoli XIII-XIV, Belluno, Istituto Bellunese di Ricerche Sociali e Culturali Editore, Serie 'Storia' n. 10, 1982; Ivone Cacciavillani, La sentenza Fletzer sulle regole, Belluno, Istituto Bellunese di Ricerche Sociali e Culturali, serie 'Documenti' n. 1, Tipognafia Piave, 1989.

[32] Eliseo Bonetti, L'Oltrepiave e il Medio Cadore, op. cit., pag. 32. Sulla frammentazione della proprietà privata in Cadore si vedano anche i dati forniti da Ottone Brentari, op. cit., pag. 59.

[33] La spiegazione popolare di questi soprannomi è la seguente: Magna carta da Piee per sottolineare il ruolo amministrativo e burocratico occupato da questo paese, Mus da Sotecastel perché venivano impiegati muli nei lavori dei mulini, Barufanti da Domeie per il carattere rissoso dei suoi abitanti riferito soprattutto alle dispute sui confini. Gianluigi Secco, Dimmi di che paese, Brescia, Belumat editrice, 1979, pagg. 91-99.

[34] Sull'argomento esiste una amplia letteratura; si veda in particolare Antonio Pertile, I Laudi del Cadore, Venezia, 1889. Giandomenico Zanderigo Rosolo, op. cit., pagg.137 e successive. Antonio Coffen Marcolin, I Laudi di Domegge, Vallesella e Grea, Belluno, Tipografia Piave, 1975; Giovanni Fabbiani, I Laudi delle Regole del Comune di Pieve di Cadore, Belluno, Tipografia Piave, 1974.

[35] F. Schupfer, op. cit., pagg.. 63-74. Giandomenico Zanderigo Rosolo, op. cit., pag, 167,

[36] Clappus: gregge, Giovanni Fabbiani, I Laudi delle Regole del Comune di Pieve, Belluno, Tipografia Piave, 1974, pag 17, art. 7.

[37] 'Che niun Forastiere non ardisca condur Animali di qualunque sorte nei Pascoli del Pubblico, ne per i Pradi dei Particolari nelli Regolati di questo Comune sotto la pena dopia contenuta nelle antecedenti capitoli delli Regolieri, e di poter procedere Criminalmente, oltre il poter ogni Regoliere, ò saltari pegnorar gl'Animali stessi, ed altre pene ad arbitrio Pubblico, e della Magnifica banca. Art. 121 Che non posino, i Forastieti abbitanti in detto luogo di Domegge, mandar i loro Animali si grossi, come minuti dentro del Regolato e Pascolo di esso Pubblico, se prima non conseguiranno licenza dalla Magn. Banca, in pena di non poter per quell'anno pascolar i suoi Animali in detto Pascolo e Regolato Art. 115.' Antonio Coffen Marcolin, op. cit., pag. 55 e pag.121.

[38] Fedèra, è toponimo frequentissimo nelle montagne del Cadore.

[39] Giandomenico Zanderigo Rosolo, op. cit., pag. 168. Per una storia dell'alpeggio nel Bellunese e un confronto con il Cadore si veda Daniela Perco, Malgari e pascoli, l'alpeggio nella provinci di Belluno, a cura di, Comunità Montana Feltrina, Centro per la Documentazione della Cultura Popolare, Feltre, Tipografia Beato Bernardino, 1991.

[40] Giovanna Brunetta, Aspetti demografici ed economici del Cadore dopo il 1932, op. cit.

[41] Sull'argomento ci sono numerose pubblicazioni, si veda Enrico De Lotto, Dallo smeraldo di Nerone agli occhiali del Cadore, Belluno Tipografia Sivio Benetta, 1956. Per notizie storiche, dati economici e statistici sull'occhialeria cadorina si vedano le innumerevoli tesi di laurea conservate alla Biblioteca Storica di Vigo.

[42] Giovanni Calafiore, op. cit., pag. 171.

[43 ]Giovanna Brunetta, op. cit. pag,. 12 nota 13. Sull'emigrazione nella provincia di Belluno, con riferimento anche alla zona del Cadore, si veda : Franca Modesti, Emigranti bellunesi dall'800 al Vajont, Milano, Franco Angeli, 1987.

[44] Eliseo. Bonetti, L'Oltrepiave ed il Medio Cadore, op. cit., pag. 44.

[45] Eliseo Bonetti , L'Oltrepiave ed il Medio Cadore, op. cit., pagg,. 44-46,

[46] Si veda per esempio la tabella a pag. 45 in Luciano Lago, La vita pastorale nel Comelico dopo il ritorno al frazionamento territoriale regoliero, Trieste, Istituto di Geografia, 1970.

[47] A partire dagli anni '70 molti pastori e casari impiegati nelle malghe ancora funzionanti del Cadore provenivano dal Basso Bellunese o dalla vicina Carnia. Fonti orali.

[48] Tra il 1924 ed il 1954 la diminuzione del patrimonio zootecnico nei diversi paesi del Cadore è il seguente: Pieve da 326 capi bovini a 165, Calalzo da 198 a 137, Lozzo da 262 a 185, Vigo da 431 a 250, Lorenzago da 270 a 215. L'unico paese che mostra un lieve aumento è Domegge da 350 capi a 380. I dati sono ricavati rispettivamente da Cenni sulla struttura economica della provincia, Camera di Commercio e Industria, Belluno, Officina Grafica Benetta e Paloppi 1925, pag. 12, e da Eliseo Bonetti op. cit., pag. 44.

[49 ]Molti informatori indicano come una delle cause principali dell'abbandono dell'allevamento, l'insufficiente reddito sul piano economico, rispetto a quello offerto dal lavoro in fabbrica o dall'emigrazione.

[50 ]Elio Migliorini – Alessandro Cucagna, op. cit., pagg.. 192-193, 202-209

[51] G. D., anni 64, ex emigrante, Domegge di Cadore, autunno 1998.

D. (domanda)

D. In stalla chi era che accudiva alla mucca, che la mungeva, quello che si dice guernà?

- In genere la faccenda era divisa tra i componenti della famiglia. Ma c'era sempre qualcuno che faceva di più. Mia mamma andava spesso a pulire la stalla, che si diceva "portare il letame fuori dalla stalla", a rifare la lettiera alla mucca; a mungerla no, era mio papà e mia nonna finché è vissuta. Dopo bisognava… il fienile era o sopra la stalla o di fianco alla stalla, quindi bisognava andare a prendere il fieno e portarlo nella mangiatoia, dare da bere alla mucca. D'inverno , quando c'era proprio tanto freddo, preparavano i secchi con l'acqua, che bevessero in stalla, ma non appena era possibile venivano liberate dalla stalla e portate alla fontana, che ogni frazione del paese aveva una fontana, a quei tempi quasi apposta per abbeverare la…le mucche. E andavano su alla fontana e si diceva "andare ad abbeverare le mucche". E questo era il lavoro da fare nella stalla alle mucche , chi ne aveva una o chi ne aveva due, ma era così. Naturalmente fuori dalla porta della stalla c'era subito il letamaio… il letamaio con il letame, dove lo si portava fuori dalla stalla e lo si ammucchiava per poi…durante l'inverno portare per i prati, no, per i campi , per i prati, per le vare. E questo naturalmente era un lavoro da fare giornalmente, ogni giorno bisognava fare 'sta cosa. In più ogni giorno bisognava cambiare quello che era il letto della mucca quando dormiva, no, e che…A quei tempi si andava nella Vizza, noi di Deppo andavamo nella Vizza a rastrellare tutte le foglie che c'erano sotto i faggi, le portavamo a casa legate nei teli, caricate sulle slitte, i teli caricati con le foglie, portate a casa e c'era un posto esclusivamente riservato per il deposito di queste foglie. Foglie che erano dette "per fare la lettiera" A sterne significa sparpagliare queste foglie e fare il letto sotto alla mucca, dove dorme.

D. Ma il fieno come veniva portato dal fienile… dal tabià, alla stalla: come si porta?

- Allora: c'erano dei fienili che poiché erano sistemati proprio sopra la stalla, allora in un angolo del fienile veniva fatta una botola che era in comunicazione con la stalla sotto; allora salivano sul cumulo di fieno, prendevano la quantità richiesta per…per il pasto della mucca, no, e lo buttavano giù per questo buco; qualche volta il buco arrivava direttamente nella mangiatoia, qualche volta arrivava di fianco. Allora andavano in stalla dove era caduto questo fieno, lo prendevano e lo mettevano nella mangiatoia dove la mucca naturalmente poi mangiava.

[52] Antonio Barpi, medico veterinario del Cadore riferisce, nel volumetto, La Pastorizia in Cadore, Pieve di Cadore, Tipografia Tiziano, 1876, l'usanza di spalmare del letame intorno alle finestre, per otturare eventuali fessure tra lo stipite della finestra e il vetro o un telaio di chiusura.

[53] Espressione rilevata a Lozzo di Cadore.

[54] A Domegge queste patate sono dette chègole.

[55] Il termine molà\molà fòra indica 'liberare' e quindi 'portare i bovini fuori dalla stalla', sia per abbeverarli alla fontana che per condurli a pascolare o camminare dopo l'inverno trascorso al chiuso.

[56 ] Si riportano di seguito alcuni articoli: 1) ... Vengano acquistati 3 tori che dovranno avere 2 anni, di mantello color grigio-ferro, ben formati, di buona, mansueta e capace qualità. 2) 'Promettono, vogliono convengono che li detti tre tori a maggior comodo siano annualmente provveduti immancabilmente' da coloro che possiedono almeno 3 'vaccini' nelle borgate di Collesello ,Rin, Vià, Sovia, Valmassoi e Vince. 5) I tori non devono servire nessun'altra frazione al di fuori di Domegge 6) I tori devono rimanere sempre in stalla e non devono essere portati fuori per prestare i loro servizi. 7) 'Dover sarà del proprietario di vaccini di corrispondere anticipatamente alli proprietari dei tori lire 20 venti, in dinaro, o in fieno, a prezzo giusto alli proprietari dei tori, a lor elezione, per cadauno vaccino che condurranno al beneficio, che gratuitamente sarà replicato quando non ne porti l'effetto...' 9) 'Oltre a ciò vieni assegnati le solite erbe alli possessori di detti tori...' erbe provenienti da due Collonelli di Malouce, Le Piazze di Sotto e di Sopra ed il Collonello di Collonei'. Archivio Comunale di Domegge. Un Nuovo Capitolato verrà approvato dalla Giunta Comunale il 17-6-1862.

Sembra di capire che con il nuovo regolamento la gestione dei tori non venga più effettuata per rotazione obbligatoria tra i 'possidenti' delle varie frazioni di Domegge ma per asta pubblica o licitazione privata.

[57] Antonio Barpi, op. cit.

[58] L. M. e S. S., anni 70 e anni 75, Laggio di Cadore, autunno 1998.

D. (domanda)

D. Quando la mucca doveva partorire , lei assisteva al parto?

S. Lo facevo io, benedetta, quando dovevano partorire!

L. Quando si vedeva, si capiva che erano ai nove mesi, che si sapeva che dovevano partorire, si andava sempre, ci si alzava di notte per andare a vedere. Poi si verificava se avevano o non avevano male.

S. Per prima cosa rompevano le acque, cosa si dice con parole nostre?

L. Le acque.

S. Le acque proprio, dopo venivano fuori due zampette, dicevamo i piedi, noi.

L. Venivano fuori i piedi. Facevano prima un pallone, vedevi che veniva fuori, allora guardava, prendeva con le corde gli legava i piedi e iniziavi a tirare e allora tirava…che vedevi che veniva avanti, chiamavano degli uomini.

S. Se poi veniva fuori con la testa, con il muso, e poi la testa, e poi tira, tira, qualche volta rimaneva a metà e moriva.

D. Perché?

S. Perché si soffocava.

L. Eh, era un pensiero tremendo…

D. Mi hanno detto che qualche volta bisogna bucare…

L. Perché ci sono le acque che non si bucano, allora bisogna bucarle.

S. La vescica sarebbe… sarebbe quel liquido che invita al parto, non è cosi?

L. Non lo so.

S. Noi diciamo le acque.

L. La chiamiamo la vescica delle acque.

D. E quando è uscito questo vitello cosa si deve fare?

S. Niente.

L. Allora, la si faceva stendere a terra, lo si tirava fuori, poi si devono tirare fuori le unghie, non so quello che hanno tra le unghie

S. Nascono con le unghie.

L. Intere.

S. In modo che là dentro non facciano male, no. Tiri fuori le unghie che sarebbe quello che deve venire fuori, e rimane lo zoccolo, diciamo.

L. E poi hanno…

S. L'ombelico, tagli quello e dopo bisogna aspettare che la mucca espella la mare, come si dice, la seconda.

L. La curata, e stavamo là ad aspettare che lo facciano perché avevamo paura delle emorragie, che perdano robe, che ci fossero anche emorragie non possiamo fare niente perché non si arriva in tempo a fare. Perché dicono che bisognerebbe mettere dentro il braccio. Ma quando inizia non c'è più niente da fare.

[59] Questi due termini sono usati rispettivamente a Domegge e Lozzo ed indicano la pratica di far camminare le mucche per far loro riacquistare tonicità ai muscoli delle gambe, dopo il lungo inverno trascorso in stalla.

[60] Vedi nota n. 30

[61] A.V., anni 59, artigiano, Laggio di Cadore, inverno 1999.

- Ma noi non facevamo mai la strada statale, diciamo la normale, facevamo sempre , anche per …, a venire per la strada qua che si va normalmente, poi si salivano i tornanti verso Roda de Doana , si chiama, una strada ripida , dove adesso scende l'acquedotto, e si saliva verso Doana, poi si si saliva nella zona della Pissa, e si e si arriva sopra la galleria, là no, e si arriva …E se no si andava su par la Roda de Val de Scosa, de Val de Scosa, che da Roda de Doana, invece che salire a Doana, quando si arrivava al piano lassù e si ritornava per la strada o si ritornava per la Val de Scosa, fino a Cianpigoto, diciamo, allora si faceva… E dopo da Cima Cianpigoto si scendeva per Sottopiova , si andava per le Maccarine e si arrivava a Campo, no. Quella era la strada di quando si portavano le bestie. Perciò era lunga e anche le mucche no, perché arrivavano che erano stremate.

[62] Pietro Vecellio Segate, Ricordi di Auronzo del 1900, Pieve di Cadore, Tipografia Tiziano, 1990. Pagg. 107-120.

[63] Andrea Angelini e Ester Cason (a cura di), Oronomi bellunesi. Centro Cadore: Pieve, Domegge, Lozzo, Quaderni scientifici della Fondazione n. 4, Padova, Fondazione Giovanni Angelini Editore, 1993, pag 87.

[64] G.C., anni 74, ex casaro, Grea di Cadore, autunno 1998.

D. Ritornando a quando era nelle malghe. Le mucche quando venivano smonticate, diciamo, andavano subito in stalla o andavano un po' al pascolo? Quando ritornavano dalle malghe?

- Si. Allora, c'era qualcuno che aveva la possibilità di lasciarle fuori fino a quando non arrivava la brina. Perché dopo, quando veniva la brina non era molto indicato lasciarle fuori. Perché innanzi tutto scivolano, rischiavano di…Perché erano tutte, quando scendevano da monte, erano in asciutta, perché erano piene e dovevano partorire il vitello, no.

Allora bisognava cercare di tenerle anche…perché se scivolavano che andavano a ruzzoloni rischiavano di perdere il vitello. Perché il vitello voleva dire perdere un mucchio di soldi, perché il vitello si vendeva, era sempre una risorsa, insomma, ecco. Noi per esempio, quando venivano giù, che noi avevamo qua sempre sette, otto mucche,

qua dove ho rimodernato adesso. Le lasciavamo pascolare ancora un po' dentro per Bieggia. Dopo abbiamo una stalla qua sotto, sotto quegli alberi là. Considera da là per cento metri sotto la valle. Bella stalla là, che poi l ho data a lui, che tiene le capre là dentro. Le portavamo là e le lasciavamo libere un pò dopo pranzo, sai a mangiare quel po' di…dopo aver segato il secondo fieno, dopo aver segato il secondo: quel po' di erbetta che veniva su ancora. Un'ora due dopo pranzo quando c'era bel sole. E le tenevamo là a mangiare il fieno fino ai Santi, dopo i Santi, dopo i Morti, là così. Quelle settimane là insomma. Se il tempo era bello anche fino a metà dicembre, di novembre, e dopo le tornavamo a portare qua. Così mangiavano il fieno là, se no bisognava portarlo qua sulla testa, vero, sì, con il fascio. Si mangiavano il fieno là e rimaneva anche il letame.

D. Chi ne aveva la possibilità mandava al pascolo queste besti?

- Èh sì.

[65] La popolazione di Lozzo indica il luogo come Monte. Fonte orale.

[66] A. V., anni 59, artigiano, Laggio di Cadore, inverno 1999.

D. Lei ricorda che, quand'era bambino, qui a Laggio c'erano le mucche ?

- Sì, sì ricordo tutte le bestie che c'erano qua, sono andato tante volte a portare le mucche in malga, anche. Sì, perché allora si andava a piedi, anzi non si faceva un viaggio continuo, no, alla sera…Prima perché le si abituava un po' quaggiù a mangiare l'erba, no, perché altrimenti un cambiamento brusco le mucche …non andava bene. Allora la sera prima dell'alpeggio andavamo dentro, le portavamo circa a metà della valle qua, che ci imprestavano un fienile e le mettevamo nel fienile. Dopo alla mattina andavamo dentro, perché le mucche faticavano a camminare, e dopo le portavamo su. E siccome quando andavano, monticavano, andavano direttamente a Campo, perché a Razzo non c'era erba, no, quel periodo l'erba... E a Campo che è a mille e sei l'erba era già alta. Allora si andava su e si andava a Campo, la strada era ancora più lunga, no. Perché da Laggio a Campo era lunga, insomma. Chi ne aveva la possibilità le caricavano su qualche camion, su qualche ruota, perché allora le strade non erano asfaltate, non c'era niente, non c'erano mezzi…Insomma c'era qualche camion che aveva portato su la roba per i pastori, no, allora quando ritornava indietro portava su anche noi che eravamo andati a portare le mucche. Le mucche, le manze…Perché noi abbiamo quattro malghe funzionanti, proprio con la stalla e tutto quanto, no. E dopo ne avevamo una solo con la malga, diciamo, no. Avevamo la malga di Sottopiova, che era la prima no, che era in cima al Cianpigoto, qua non appena vi si arrivava, si fanno tutti i tornanti, come si arriva su nel piano, come ci s'avvia nel piano per andare al rifugio. Sulla sinistra si scende cinquecento metri là si giunge alla prima malga, che là c'erano le manze. Ci sarebbero le manze, che sarebbero prima delle mucche, no. Poi si andava ancora un po' avanti verso il rifugio e là c'erano le vitelle, che chiamavano, chiamavano la Federata, che anzi il nome non è neppure….Noi diciamo Federata, ma il suo nome vero e proprio mi sfugge adesso…non me lo ricordo più che nome ha, perché è un nome che noi non abbiamo mai tanto usato qua, ma sulle carte è segnata come malga…èh non mi ricordo più. E dopo abbiamo la malga di Razzo, che è ancora più avanti, no.

D. Mi ha detto che alla partenza vi fermavate in un fienile…

- Sì a metà strada circa, dentro per Selva…

D Ma tutti?

- No, non tutti, perché non c'era posto per tutti. Chi aveva le mucche un po' più deboli, chi aveva le mucche che faticavano a camminare. Chi non le aveva portate per i prati prima, allora dovevano fare metà viaggio alla volta, no, diciamo, perché non si stancassero troppo. Perché altrimenti diminuivano il latte, perché…

D. La stalla era del Comune?

- No no, fienili privati, così. I fienili che trovi lungo la valle.

[67] Francesco Schupfer, Il Cadore i suoi monti e i suoi boschi, op. cit. pagg. 68-69. Si veda anche Walter Musizza, Giovanni De Donà, Baion una casera, un rifugio, Udine, Litografia Designgraf, 1992

[68] Giandomenico. Zanderigo Rosolo, Appunti per la storia delle Regole, op. cit., pag. 24.

[69] I pascoli di Losco e Pian de Sire, fino alla metà degli anni '40, erano monticati alternativamente da Vila Granda (chiamata anche Gortina) e Vila Pithola, le due borgate che costuiscono il paese di Lorenzago. Fonte orale.

[70] Relazioni annuali del Comizio Agrario di Auronzo. B. S. V.

[71] Relazione del Comizio Agrario di Auronzo sulla visita fatta ai pascoli estivi del distretto. A. C.A.

[72] Relazione annuale del Comizio Agrario di Auronzo, Anno 1895. B. S. V.

[73] Con questi termini, nei documenti d'archivio, vengono indicati gli allevatori .

[74] Termine usato nei documenti d'archivio in sostituzione di monticare

[75] Renza Fiori, a cura di, Aiarnola, Belluno, Tipografia Piave, 1998.

[76] La scòla de i morte è descritta come un gruppo di anime che vaga per le strade dei paesi, borbottando e lamentandosi. L'ora preferita da queste anime è appunto la mezzanotte. Ci sono diverse storie fantastiche che accompagnano i racconti relativi ai viaggi e agli spostamenti degli uomini e delle donne, durante le ore notturne, per raggiungere i luoghi di lavoro o i pascoli.

[77] La vecchia strada, sebbene molto ripida presentava il vantaggio di essere più breve, perciò non pochi la preferivano alla strada militare che, sebbene molto più piana grazie ai molteplici tornanti, allungava il viaggio di ore.

[78] S. V., anni 72, di Domegge, racconta che il mantello delle mucche veniva spalmato col sego, grasso di maiale, per proteggerla dalla pioggia.

[79] Il campanaccio con il collare è detto sanpògna a Domegge, Vallesella e Grea, Lorenzago, Pozzale, tantèl ad Auronzo, Lozzo Vigo, Laggio e Pelos.

[80] Per fabbricare i collari dei campanacci (coste, quelli dei bovini e canòule\canàule, quelli delle capre) si utilizzava legno di larice possibilmente già dotato di una curvatura naturale. La fascia in legno era immersa nell'acqua bollente e piegata manualmente fino ad ottenere un ovale. La fascia, infine, veniva tagliata e lavorata in modo da poter essere aperta e rinchiusa al collo dell'animale. Alla fine della stagione i campanacci venivano riposti in soffitta, infilati in un lungo bastone e appesi sotto il tetto.

[81] La mussa è il termine dialettale che indica il palo rotatorio sul quale è appesa la caldaia per la fabbricazione del formaggio.

[82] Francesco Shupfer, op. cit., pagg. 74-82.

[83] Informazione data da G. D. V., anni 85, ex casaro, Domegge di Cadore, inverno 1998.

[84] Informazione data da A. D. R., anni 72, Lorenzago di Cadore, autunno 1998.

[85] Nella relazione annuale del Comizio Agrario di Auronzo, del 1895, si legge al capitolo Osservazioni generali 'Il formaggio appena levato dalla caldaia e per tutto il tempo fino alla smonticazione viene ammassato sopra un grosso tavolato che corre all'ingiro della cella, alquanto elevato dal suolo. Su questo tavolato chiamato le piane, le forme di cacio stanno ammassate le une sopra le altre specialmente dove la cella è piccola e il formaggio è in forte quantità' Seguono indicazioni su come è opportuno allestire la cantina per conservare in modo corretto le forme di formaggio e ricotta. B.S.V.

[86] S. V., anni 72, di Domegge, racconta che i pastori della Casera Doana raccoglievano l'erba per farsi i gicigli in una palude vicina alla casera.

[87] 'Relazione della Commissione del Consiglio Agrario di Auronzo sulla visita fatta ai pascoli estivi del distretto.' Auronzo, lì 20 novembre 1867. A. C. A.

[88] Il Comizio Agrario di Auronzo fu istituito nel 1876 con lo scopo di migliorare l'attività di allevamento e la produzione dei latticini nelle malghe e latterie del Distretto. Annualmente il Comizio predisponeva sopralluoghi nelle malghe e nelle latterie al fine di verificare le condizioni in cui erano tenuti gli edifici, i metodi di produzione e la qualità dei latticini. Seguiva la stesura di relazioni con osservazioni, consigli e premi ai caseifici e ai casari più meritevoli. B.S.V.

[89] Nel volume di Renza Fiori, op. cit., la parola bolco si riferisce alla funzione di pastore senza distinzione di posizione o ruolo.

[90] Il termine secondo pastro viene riferito da Luigi Calligaro De Carlo ex casaro. A Cortina d'Ampezzo il pastro è il primo pastore nelle pecore e capre, Vocabolario Ampezzano, a cura di Comitato Studi Bolzano, Athesia, 1997

[91] Così viene chiamata nei registri di monte la razione di latte e formaggio che spettava ai pastori e al casaro

[92] Ogni pastore alla fine della stagione riportava il proprio sgabello a casa.

[93] A.D.R., anni 72, ex operaio ottico e contadino, Lorenzago di Cadore, autunno 1998

"Ciò, ciò, ciò" per esempio quello che sta davanti, il primo pastore, grida "ciò, ciò, ciò", sempre col sale pronto, vero, per darlo a una, all'altra, a quest'altra, a quella che gli capita vicino. Davano il sale. Partivano e andavano in una zona, per esempio, in una zona come questa; prendevano e uno si metteva laggiù, uno si metteva lassù, l'altro di là, in quattro, e quando arrivavano le vacche le facevano girare, in modo che stessero in quel pezzo di terreno, ecco. E l'indomani cambiavano nuovamente zona. Ogni giorno una parte di pascolo, cosicché potessero mangiare, ecco, queste bestie. E poi, mano a mano che l'erba ricresceva per la seconda volta, riprendevano la rotazione fino al sette di settembre, quando tornavano a casa.'

[94] A.D.R., anni 72, ex operaio ottico e contadino, Lorenzago di cadore, autunno 1998

D. A Pian de Sire faceva il pastore?

- No no, ero aiutante di Checco.

D. Le vacche a che ora vengono portate negli stalloni ?

- Le vacche vengono portate verso le tre e mezza-quattro.

D. E poi non escono più?

- No, quella sera no. Eh, ma stanno fuori dalle otto alle quattro di sera, mangiano...

D. Non si usava, qui, mandarle a pascolare un po' anche alla sera, così?

- No no. Il primo periodo, per esempio a Pian de Sire, allora sì perché stavano ventidue giorni solo lì; lì attorno, per ventidue giorni. Allora le lasciavano libere dal mattino alle otto fino alle dieci, perché ... all'inizio non possono mangiare come vogliono, anche le bestie, ce n'è di ingorde, ecco, di quelle che mangiano eccessivamente, e poi stanno male e insomma... è un compito anche quello, di... di saperle anche amministrare, queste bestie, perché... E poi ci vuole tanta passione, ci vuole passione.

D. Là a Pian de Sire le mandavano fuori dalla stalla alle dieci, e poi?

- Poi le rinchiudevano, le legavano di nuovo, e poi la sera le mungevano, dalle quattro alle sei le mungevano, perché d'estate, d'estate c'è luce fino a tardi, alle sei le liberavano e facevano rientrare alle otto, prima che diventi buio, altre due ore.

D. C'è un modo per dire quando le si manda fuori a quell'ora? È mandarle a thena?

- Sì, sì, a thena, in thena. In prendèra è al mattino, dicono prendèra. Perché allora le prendono qui, come per esempio qui le portano fin quasi a Laggio, a pascolare. E lì vanno dritte finché arrivano al ponte, per esempio, fin quaggiù al ponte. Lì le fermano e dicono 'Dovete stare da qui '. E l'indomani le mandano fino ad un bel pezzo in alto verso Laggio, e via di seguito, gli danno un pezzo al giorno, no. Eh sì.

D. Allora al mattino in prendèra...

- E alla sera a thena.

D. Anche a Doana e Baion si usava fare così?

- No, no. A Baion e Doana no, perché non c'è... il cianpè, lo chiamano, il cianpè dove stanno le bestie alla fine, quando ritornano, insomma, quando rientrano dalla zona di pascolo della mattina stanno nel cianpè, un'ora, due, tre. I pastori si sdraiano ognuno in un angolo, e stanno là perché li chiamano 'quelli che lisciano il bastone', i pastori, 'quelli che lisciano il bastone'. Allora loro stanno là finché non è ora di... Poi fanno un fischio, quello in cima fa un fischio e allora le uniscono tutte e le mandano nella stalla pian piano, no.

[95] Renza Fiori, Aiarnola, op. cit., pag. 21.

[96] Si veda ad esempio il Regolamento per la conduzione delle Malghe del Comune di Domegge art. 8. A. C. D.

[97] Negli anni '40 la malga di Misurina era dotata di corrente elettrica e la zangola era a motore.

[98] Da quanto riferito dagli informatori la maggior parte delle malghe del Cadore ebbero la disponibilità di una scrematrice solo dopo gli anni '50.

[99] In alcune montagne l'acqua di un torrente prossimo alla stalla veniva fermata con un sbarramento e liberata nell'edificio per ripulirlo dagli escrementi .

[100] M. S., anni 76, di Domegge, racconta che la propria famiglia nel mese di ottobre saliva a Doana con i cavalli per effettuare la concimazione del pascolo; in cambio di questo servizio essi avevano diritto di effettuare un taglio d'erba sulla monte per il mantenimento del cavallo.

[101] Nella Relazione annuale il Comizio Agrario di Auronzo indica la malga di Rin Bianco la migliore sotto l'aspetto dello smaltimento letame. B. S. V.

[102] La Casera delle Armente si trova a quota 1757 m., Pian de Formai a 1850 m. ca. questo dislivello tra i due piani avrebbe reso molto difficile il trasporto con la slitta del formaggio dalla Casera, al Piano per dove prosegue la strada vecchia di monte, molto più comodo fare il trasporto in spalla e poi continuare con le slitte.

[103] Le modalità di trasporto dei prodotti caseari a valle, come altre pratiche di alpeggio, non erano soggette a rigide usanze immutabili nel tempo. Alcune abitudini potevano modificarsi nel corso degli anni in base alle circostanze alle esigenze di chi lavorava nelle malghe o dei proprietari del bestiame .

[104] La notizia viene riportata da Renza Fiori ,op. cit. Il pastore che scrive il diario riporta l'ordine, da parte di un proprietario, di vendere la propria mucca, la quale durante la notte si era rotta una gamba.

[105] Andrea Angelini e Ester Cason, a cura di, Oronomi Bellunesi. Centro Cadore: Pieve, Domegge, Lozzo, Quaderni scientifici della Fondazione n. 4, Padova, Fondazione Angelini Editore, pag. 38.

[106] Con l'arrivo dei primi freddi verso la fine di novembre, primi giorni di dicembre, ogni famiglia uccideva il maiale per produrre salami da consumare durante i mesi invernali. La pasta del salame era solitamente mista manzo o cavallo e alla fabbricazione provvedevano esperti chiamati dalle famiglie appositamente. Il salame, prima di essere riposto in cantina, veniva tenuto appeso al soffitto della cucina dove si affumicava e seccava, era il cosiddetto sóra fógo di cui le famiglie potevano vantarsi.

[107] Andrea Angelini e Ester Cason, a cura di, op. cit., pag. 127.

[108] Pietro Vecellio Segate, op. cit. pagg.. 107-128.

[109] Per una brevissima storia delle prime latterie sorte in Cadore si veda Antonio Barpi, La Pastorizia in Cadore, Pieve di Cadore, Tipografia Tiziano, 1876, pagg.. 82-83.

[110 ]Borgo Vigo 1874, Reane, Borgata Tarin, Villa Piccola Ad Auronzo 1875; Domegge, Vallesella, Calalzo 1876; Pozzale 1874, Sottocastello, Vigo; Laggio 1977; Tai 1878. I dati sono ricavati da, ‘Secondo Convegno delle latterie Sociali della Provincia di Belluno, tenutosi in Auronzo l'11 maggio 1879', Belluno Tipografia di G. Deliberali ,1879. Lozzo1884, il dato è ricavato da Walter Musizza; Giovanni De Donà, Daniele Frescura, Il forte di Col Vidal. Con le altre difese della stretta di Tre Ponti, Udine, Edizioni Ribis 1990.

[111] Bruna Casol , Note sull'agricultura e le latterie sociali nel Bellunese fra ottocento e novecento, in Storia contemporanea del Bellunese, Feltre, Libreria Pilotto Editrice, 1985, pag. 60.

[112] Si vedano i regolamento della latteria di Laggio e Domegge di Cadore. B.S.V. e A.L.D.

[113] Nel 1908 la Latteria Sociale di Domegge installò nel proprio caseificio un nuovo sistema per la distribuzione del fuoco sotto le caldaie; la ditta fabbricatrice era la Pasquale Tremonti di Udine. A. L. D.

[114] Nell'archivio della Latteria Sociale di Domegge di Cadore sono conservati innumerevoli documenti e carteggi relativi all'attività della latteria dall'anno della sua fondazione 1876 all'anno di chiusura 1989.

[115] Istituto Storico Bellunese della Resistenza, a cura di, op. cit. pag. 61.

[116] Matteo Talamini, Le latterie cooperative nel Cadore e i vantaggi che ne deriverebbero dalla loro unione per la vendita in comune dei prodotti dell'industria casearia. Riassunto di alcune Conferenze fatte in Cadore nell'estate 1902, Roma, Casa Editrice Italiana, 1903.

[117] Enore Tosi, Relazione.Visita alle latterie del Distretto di Auronzo, Pieve di Cadore, Premiata Tipografia Tiziano 1908. Enore Tosi era titolare della Sezione Speciale per il Caseificio Cattedra Ambulante Provinciale d'Agricoltura di Udine

[118] In Enore Tosi, op. cit., pag. 10 si legge: 'La razionale utilizzazione dei cascami, specie del siero, lascia alquanto desiderare, perché in parecchie latterie i soci non smaltiscono completamente la produzione giornaliera di questo liquido, …, gettando il rimanente come cosa di nessun valore…Il modo più pratico e sicuro di ricavare un utile notevole dal siero invenduto è quello di darlo come alimento ai piccoli maiali che ne sono ghiotti…. Facendo il giro per i prati posti sul pendio della montagna o sul dorso di un colle, ho visto in parecchie località che la flora era scadente e la vegetazione minima, per effetto del ristagno dell'acqua di sorgente e di pioggia dovuto in gran parte al terreno argilloso e poco permeabile…Un sistema economico di fognatura o di drenaggio con sassi e ruderi e una più accurata incanalazione delle acque ovvierebbe a questi inconvenienti, il cui danno se non si pone rimedio. si perpetua e si accresce…..Riguardo il personale di latteria, non posso che ripetere quello che dissi l'anno scorso: salvo eccezioni esso è desideroso, e avido di apprendere, di istruirsi…'.

[119] Enore Tosi, op. cit., pag. 5.

[120] D'un convegno a Roncegno fra i due iniziatori del caseificio a sistema svedese nelle province di Belluno, Venezia, Tipografia della Gazzetta, 1880, pag. 20 .

[121] La maggior parte dei casari del Cadore avevano conseguito la qualifica alla scuola di Mas (BL); per alcune brevi informazioni sulla scuola si veda Giuseppe Berneri, Caseificio bellunese, in 'Rassegna Economica', anno II, n. 2, febbraio 1954, pag. 10.

[122] D'un convegno a Roncegno, op. cit., pag. 20. Si veda anche, Atti del Convegno regionale veneto per il miglioramento dell'economia montana, Consulta Regionale per l'agricoltura e le foreste delle Venezie, Belluno, Tipografia Benetta, 1946.

[123] Un tempo il materiale per la fabbricazione di molti strumenti e recipienti usati in latteria o malga era il legno, sostituito in un secondo momento dal rame e poi dall'alluminio.

[124] Il tipo di formaggio prodotto in Cadore era solitamente della categoria dei semi-cotti; la cagliata frantumata viene portata ad una temperatura di 40° circa. Nei formaggi così detti cotti, come il grana, la cagliata viene portata anche a 52°,

[125] G.C., anni 74, ex casaro, Grea di Cadore, inverno 1999.

Porti il latte nella caldaia e poi lo porti ad una temperatura di ventotto, trenta gradi, dipende... Anche lì dipende dall'acidità... Poi si aggiunge il caglio. Quando è coagulato, il latte si coagula, no, il conàeo, che sarebbe il caglio, è un presame. Quando si è coagulato... Allora, quando il latte è coagulato, si... pian pianino si procede con la lavorazione e poi si rimette di nuovo il fuoco sotto; perché il fuoco, in quelle caldaie, ci sono tre caldaie generalmente in riga, il fuoco sta sotto su un carrello che scorre su delle scine. Con una cremagliera, così che quando si è raggiunta la temperatura che si vuole, si toglie il fuoco: c'è una manovella che si gira, e il fuoco è sul carrello e si sposta. Perché la temperatura dev'essere quella che vogliamo noi. Il fuoco non può restare sotto, altrimenti la temperatura sale... o sale troppo, o sale poco. Quindi il fuoco bisogna toglierlo. Poi, quando si è fatto... il coagulo diventa tutto compatto, tutta la massa, e bisogna romperlo pian pianino, perché nella rotura... Ci raccomandava sempre tanto anche il maestro laggiù a scuola: nella rottura, siccome... a fare il formaggio sono le sostanze proteiche, la caseina e l'albumina, no. Ma anche il grasso va nel formaggio: ma il grasso non si solidifica come la caseina e l'albumina, tende ad essere più solubile; quindi nella rottura tende ad uscire nel siero. Perciò bisogna farla lentamente, la rottura, in modo che il grasso resti il più possibile dentro il formaggio. Finita la rottura... A seconda dei formaggi si fa la rottura che sono dei grani, i grani del formaggio, no, li chiamano grani... Varia, nel nostro tipo diventa come il granoturco, per esempio; poi il grana per esempio diventa come un chicco di riso... Varia, insomma, il Bel Paese resta come una nocciola, una nocciolina, e poi ci sono dei tipi che restano come una noce. Ma la rottura si fa a seconda dei tipi. E poi si fa la cottura, e anche la cottura varia a seconda dei tipi. Perché abbiamo anche le tre grandi categorie: formaggi crudi, formaggi semicotti e formaggi cotti. Fra i formaggi cotti c'è il grana e quei tipi di formaggio lì, da condimento, diciamo. Fra i semicotti c'è anche il tipo di formaggio che facevamo noi qui, che si chiamava 'Asiago', tipo 'Asiago'. Però ci sono tanti modi di farlo, anche in base al grasso che ci si lascia dentro, che diventa più o meno morbido. E invece fra i crudi abbiamo tutti .... il 'Bel Paese', tutti quei formaggi teneri... Quelli sono tutti formaggi crudi. E lo si fa possibilmente col latte intero, ma il nostro qui era un tipo semicotto. E quando si è raggiunta la temperatura che si vuole, dai trentasette ai trentanove gradi, dipende, varia in base all'acidità del latte, in base alla stagione. E allora si toglie di nuovo il fuoco e si continua a lavorarlo finché noi, sentendolo colle mani, sentiamo che questi grani sono abbastanza asciutti, no, asciutti al punto che desideriamo noi, insomma. Se vogliamo formaggio più duro, più consistente, da lasciar invecchiare e poi magari grattugiarlo, allora lo facciamo più asciutto. Altrimenti lo teniamo più morbido, così matura prima ma bisogna anche mangiarlo prima. Poi quando sentiamo che è asciutto al punto giusto, lo lasciamo depositare, e si deposita tutto sul fondo, fa presa, fa tutto un blocco. E lo lasciamo là circa dieci minuti; poi lo si deve tirare fuori. Per tirarlo fuori, ci sono anche lì tanti sistemi, ci sono tanti sistemi. Io ho adottato dei sistemi per cui prendevo una tela di lino (che si adoperavano le tele per togliere il formaggio) e scendevo con un nastro metallico, lo arrotolavo intorno al bordo della tela, due o tre giri. Scendevo col nastro metallico così e tagliavo un pezzo e lo voltavo nella tela. Poi lasciavi il nastro, afferravo i quattro angoli e lo portavo fuori, che c'è il contenitore apposta, no. Si metteva dentro e lo si lasciava là provvisorio, là sul tavolo. E si toglieva dalla calaia quell'altro. Però ci sono tanti sistemi. Ho lavorato anche qui nella latteria di Grea e c'era una caldaia piccola, che aveva circa quattro quintali di latte. Allora lì lo univo tutto, invece, poi lo giravo sottosopra e poi con uno spago la tagliavo in quattro pezzi, e poi tiravo fuori i quattro pezzi uno alla volta e li mettevo nel contenitore. Sì, ci sono tanti sistemi, insomma. E poi ho visto dei casari, che magari andavo a trovare nelle latterie, miei colleghi, che scendevano (nella caldaia) con una grande tela e avvolgeano tutta la massa nella tela, no, tutta insieme; poi legavano i quattro angoli, ci infilavano un palo e lo portavano sul tavolo tutto intero. E là, con un grande coltello si ricavavano le forme. C'erano tanti sistemi, insomma. E poi lo si mette sotto pressione. Adesso ci sono dei torchi, torchi meccanici, vero, per pressarlo, e se no avevamo anche delle pietre tonde così, di cemento. Si mettevano dei dichi di legno sulla forma, poi ci si appoggiava sopra questo peso e si lasciava là un'ora-due, sotto pressione. E col siero che rimaneva ci si faceva o ricotta no... con il siero che restava nella caldaia dopo aver tolto il formaggio, si faceva ricotta....

[126] Nella maggior parte delle latterie del Centro Cadore, Oltrepiave ed Auronzo dopo gli anni Settanta il forno a legna fu sostituito con quello a nafta o gasolio.

[127] La latteria Sociale di Domegge di Cadore intratteneva rapporti commerciali con la ditta Fratelli Giusti di Pisa. A.L.D.

[128] Nel comune rimase aperta solo la piccola latteria di Rizzios , frazione del Comune di Calalzo. Fonte orale.

[129] S.M., anni 41, imprenditore agrario, Vallesella di Cadore, inverno 1999.

D. Mi hai detto che mungevi, ma non mungevi a mano?

No, avevamo le mungitrici, no, avevamo un impianto di mungitura proprio all'avanguardia, cioè con sala di mungitura dove le vacche entrano, si mettono al loro posto e si fanno mungere. Però avevamo le mungitrici, e poi avevamo le vasche refrigeranti, perché ultimamente cosegnavamo il latte a Latte Busche. Perché noi avevamo provato all'inizio, quando avevamo ancora poche vacche, a portarlo quassù alla latteria, solo che poi c'era una questione tecnica, cioè che quando la latteria distribuiva il formaggio una volta ogni due mesi, noi ci ritrovavamo con venti, trenta forme di formaggio, e magari era il periodo in cui la gente voleva cambiare gusti, adesso magari c'è un ritorno ai sapori un po'…, che non si trovano più, per spiegarci, ma allora andavano di moda i… cominciavano ad andare di moda i supermercati, nessuno prendeva più la forma di formaggio intera, perché poteva essere amara, poteva essere salata, quindi tutti volevano un pezzetto… E noi per comodità avevamo bisogno di vendere, di vendere tutto il formaggio che avevamo. Tenerlo là in cantina significava manutenzione, andare a pulirlo, andare a girarlo, che comportava anche perdita di tempo. Perdita tra parentesi, perché siccome noi eravamo tanto presi col lavoro, avevamo bisogno di badare a produrci il latte, ecco. E allora avevamo optato per l'andare portare il latte, mandare il latte a Busche. Busche veniva un giorno sì e un giorno no, quindi avevamo una grande vasca da sette quintali dove versavamo il latte delle quattro mungiture, si refrigerava a quattro gradi, e poi passava il trasportatore, lo prendeva e lo portava giù, ah.

[130] Sulla dieta alimentare dei contadini della provincia di Belluno ed in particolare sull'uso della carne si veda Riccardo Volpi, Terra e Agricoltura nella provincia di Belluno, Bellluno, Tipografia Deliberali, 1880, pp. 237-242, e Tamara Rech, L'alimentazione tra festa e, in Daniela Perco, La cultura popolare nel bellunese, 1995, pagg. 312-337.

[131] Il cappuccio veniva sminuzzato e pressato in barili di legno, alternando strati di cappuccio e sale. I crauti venivano consumati durante l'inverno.

[132] L'importanza e la diffusione della frutta nella dieta alimentare cadorina è un aspetto che meriterebbe senz'altro un approfondimento, per capire la reale portata di questo importantissimo alimento. Sull'agricoltura e la frutticoltura si veda nota 22.

[133] C.F., anni 77, ex contadina, Auronzo di Cadore, inverno 1998.

Per cuocere il burro io lo metto in una caldaia, prendo sette-otto chili di burro e poi lo metto là, e poi bisogna saperlo cucinare, se non lo sai cucinare non si conserva. Io lo cucino sempre alla luna di marzo, e poi bisogna lasciarlo cuocere per un pezzo, ci mettiamo sotto una bella ciotola d'acqua. Poi metto tutto questo burro, lo metto qua che si... che si sciolga, e deve cosarsi, questo burro. Quando il burro inizia a salire, si forma la schiuma, sale, perché ci vuole una caldaia grande, perché se hai anche una caldaia così, che è mezza, il burro sale; bisogna stare attenti che salga la prima volta, allora lo sposti da parte e lo rimetti là, che bolla ancora un po' perché deve formarsi la seconda volta questa schiuma: e allora il burro è cotto. Lo lasci raffreddare, e sotto rimangono i resti, vero. E io le uso per la péta, ho fatto.... aspetta che poi le dico: quest'estate ho messo da parte i resti del burro cotto, ho fatto una péta, quando c'era anche A. e quelli che abitano giù... Beh, la péta si sbriciola tutta con questi resti, perché ci metti anche una mezza scodella di resti di burro, che sono... Ma la péta, noi dicevamo péta, la facevamo con la farina gialla e bianca, invece io adesso la faccio tutta con la farina bianca, ma si sente perché diventa tutta sbriciolata. Le nathe, diavolo, erano buone! Le mangiavamo con la polenta, allora, e che buone che erano!

[134] Un informatore riferisce che, come pagamento per qualche servizio o lavoro, c'era chi offriva un'alternativa dicendo 'Formai tristo o puina bòna? ' al che veniva risposto 'A ió formai tristo, tu magnete puina bona'

[135] In molti paesi c'era l usanza di donare a Pasqua un agnello al prete.

[136] Si veda l 'Regolamento per la conduzione del Pubblico Macello Comunale' 11 gennaio 1930.

Art. 2 Si può fare eccezione per suini, caprini, ovini.

Art. 3 La Direzione, ispezione e sorveglianza del macello è affidata al Veterinario Consorziale.

Art. 7 Annesso al Macello c'è uno spaccio di carni di bassa macelleria. Per ogni vitello e bufalino £ 1.0; per ogni vitello sopra l'anno £ 1.0, per ogni vitello sotto l'anno £ 0.8.Art. 12 Il pagamento della tassa dovrà essere fatto sempre prima della macellazione. A. C. D.

[137] Molti informatori ricordano che le bovine ritornavano dall'alpeggio con la mastite a causa della cattiva mungitura effettuata con fretta dai pastori.

[138] G. D.V., anni 85, ex casaro, Domegge di Cadore, inverno 1998.

Alla gallina tagliavano la... piuma, c'è un pezzetto così col buco in mezzo, allora si tagliava quella e la si metteva. Bisognava stare attenti, se no arrivava nella mammella, bisogna stare attenti, tirarla via appena finito. Si usava quella, una volta.

  1. C'era l'abitudine anche di disinfettare un po'?

- Eh sì, per forza. Per esempio una mastite, adesso i veterinari fanno punture, hanno tutti i mezzi, vero; una volta punture non ne facevano. Però per le mastiti noi usavamo soprattutto dei lavaggi di sapone bianco.

  1. Sapone di Marsiglia.

- Vero, e poi si lasciava la schiuma in posa come una barba. Poi si fanno gli impacchi due volte al giorno e si asciugava. Poi c'erano le cose da applicarci, adesso negli ultimi tempi, è come..... Se va da Giorgio, lui le usa tanto.

  1. Le candelette?

- Le candelette, ecco. Ma allora una volta, quando veniva la mastite si infilavano queste cose delle galline e si lavava col sapone, e poi si toglievano in modo che uscisse il latte, ah, capisce? Ma poi si è iniziato a fare... Per esempio, noi una volta, vero, per ... per le bronchiti, perché andavano alla fontana anche d'inverno a bere, anche su a Vigo dove c'era il Municipio c'era una fontana, in questa stagione i contadini di Vigo portavano a bere le vacche alla fontana. Se quindi prendevano la polmonite... allora cosa facevano? O davano loro da bere un paio di litri di vino bianco, vero. Perché quando prendevano la polmonite non... Un paio di litri di vino bianco. Mettevano del fiorume, della polvere di fieno, prima lo scaldavano e poi lo mettevano nel sacco e lo appoggiavano sulla schiena, capisce? Erano tutte medicine fatte così, adesso è tutto diverso.

  1. Invece quando non avevano... non ruminavano?

- Quando non ruminavano, lo stesso, per quello bisognava fare un decotto di radice di genziana, una cipolla, noce moscata e rabarbaro, si faceva un litro di... di... bollita, e quella era anche efficace, molto efficace.

  1. E glielo si dava a bere colla bottiglia?

- Con la bottiglia, capisce? Sì, non c'era altro che fare così, una volta. Ma adesso hanno le medicine, poi adesso hanno i veterinari.

[139] Antonio Barpi, La pastorizia in Cadore, op. cit., 1876.

[140] Un informatore di Auronzo riferisce che per portare il letame, veniva fissato sulla slitta l pontin una tavola in legno che fungeva da piano della slitta.

[141] Molte famiglie durante il periodo di fienagione in alta montagna venivano coadiuvate nel lavoro da uomini provenienti dal Trevigiano. Ai segantini veniva garantito vitto e alloggio e un pagamento spesso in natura. Fonti orale.

[142] Tutti gli informatori ricordano che l'ultimo funather del Cadore era di Auronzo. Le funi venivano realizzate con la pelle di bovino .

[143] A. M. e B. D.R., anni 78 e anni 85, ex contadina e ex operaio S.A.D.E., Pelos di Cadore, inverno 1999.

A. In agosto la gente andava su, sì. Poi salivamo a prendere (il fieno), facevamo i covoni, lo portavamo sulla testa fino alla strada, lì poi avevamo i carri sui quali caricavamo i fasci, e tornavamo a casa.

B. Lo portavamo a Vigo.

D. Tirando il carro da voi?

A. Si.

D. Non un animale?

B. E quali cavalli!

A. No, cara, lì il carro ce lo tiravamo noi.

B. Niente traini, quattro persone e avanti.

A. E quando mi sono sposata, ho fatto diciassette noli, dicevamo allora, col carro. Alzandosi all'una e mezza, alle due e alle tre di notte per andar su, vero. E a mezzogiorno eravamo a casa col fieno, perché lassù i cosi, i tabias non erano a portata di mano, bisognava camminare ancora un pezzo e poi andare a farsi fasci per portarli con il carro.

D. E che portata ha un carro?

A. Allora ci caricavamo sopra dodici torse, le chiamavamo torse.

D. Dodici?

A. Dodici fasci.

D. Piuttosto pesante, quindi?

A. Eh, pesavano da...

B. Cinquanta chili.

A. Cinquanta chili, pesavano i fasci. E portare sulla testa cinquanta chili, capisce che...

D. Ma con... voi la chiamate cuèrta?

A. No no, con la corda di canapa, con la corda di cuoio.

B. La corda di cuoio, sì sì.

A. Quelle che si facevano... Allora comprano le pelli, e con le pelli si facevano le corde di cuoio, le attorcigliavano come trecce, come le trecce delle donne, diciamo...

B. Forti, quelle.

A. E fabbricavano le corde di cuoio così.

D. Le facevano qui a Pelos?

A. No.

D. Ad Auronzo...

A. Li chiamavano i funathèi, ad Auronzo. Portavano loro le pelli, di quelle vacche che magari morivano o qualcuno andava a comprarle dal maccellaio, non so, gliele portavano e loro facevano le corde.

B. Anche mio padre ne ha portate là, ha fatto parecchie corde di cuoio.

A. Sì, e quelle andavano bene, perché non si rompevano né niente. E allora....D.

D. Invece... noi diciamo i lenthuói, voi dite cuèrta?

A. Le cuèrte, sì.

D. Ah, noi diciamo lenthuó, ecco; e quando si porta il fieno con il telo, allora?

A. E' uguale

B. E' la stessa cosa.

A. La stessa, la stessa, ma in montagna, così, come si faceva? Innanzi tutto non c'erano tanti teli, facendo anche dodici teli, e poi ce ne stava di più. Sui... Perché bisogna fare tutti i mannelli per fare i fasci. Si facevano i mannelli e si mettevano insieme sei mannelli per fare un fascio; poi lo si legava, ci si saliva sopra e si tirava fino a ritrovarsi seduti in terra. Ero sempre io a legare, perché dicevano che avevo più forza, perché se non erano legati stretti si slegavano.

D. Ma si lega stando in terra?

B. In terra, in terra.

A. Si metteva la corda così, no: lunga distesa. Poi ad un capo c'era una taccola: la si piantava nel terreno per tener fermo, e poi si stendevano una sopra l'altra tutti i cosi, i mannelli, sei, non più di sei perché altrimenti si faceva...

[144] Vedi nota 20

[145] Sui diversi sistemi di conservare il fieno nelle Alpi Orientali si veda Carla Marcato, Intorno alle denominazioni del 'fienile' nell'Italia nord orientale, in 'Archivio per l'Alto Adige', LXXVI, Firenze, Istituto di studi per l'Alto Adige, 1982.

[146] E.V., anni 72, ex operaio ottico e allevatore, Lozzo di Cadore, inverno 1999.

La meta, noi non l'abbiamo mai fatta, però l'ho vista fare. Fanno la stessa cosa, mettono il palo in piedi, un palo grosso, bene appuntito, che vada nel terreno, che vada a fondo nel terreno. Poi ci mettono sotto delle grosse pietre, in modo che resti saldamente in piedi. Dopo di ché anche tutto attorno ci mettono delle grosse pietre, fanno delle specie di fondamenta, e mettono pali di traverso che vengano... usano 'legna da fieno', per il fieno, dicono è legna di fieno: legna per il fieno, giù in fondo così. E cominciano a metterlo su, e pressare non al centro, magari si tende a dire 'pressiamo nel mezzo', invece no: lo pressano tutt'attorno. E bisogna che ci sia sempre qualcuno che butta sul fieno e qualcuno che lo pigia e che gira intorno al palo, nel caso di una médha normale ne basta anche uno. Ma buttano sempre su il fieno, e girano sempre attorno e pressano sempre attorno. Perché: perché girando attorno, se fermenta, quando fermenta, è già pressato, no, e quindi (la médha) tende verso il centro e non si rovescia. Se invece si pressa il fieno vicino al palo e non all'esterno, allora si apre, perché si comprime e si apre, invece (pressando) al centro non si cede più, resta... resta intatta. Perciò è meglio fare così: premere più all'esterno e meno in mezzo, bisogna premere un po', ma meno, in modo che quando fermenta rimane sempre intera. E in cima, alla fine, le danno la forma come di una pera, e in cima ci mettono, ci mettono... allora facevano una corona... non di salice, cos'è? ...Beh, un'erba che c'è su di là, vero, che forma un reticolato così. L'avvolgevano stretta stretta, in modo che se pioveva l'acqua non scendesse lungo il palo all'interno. In modo che scorresse giù, poi la pettinavano bene, perché fosse liscia, e se pioveva non si ammuffisse, vero. Era veramente un bel lavoro, chi lo faceva, non ne erano tutti capaci, vero. Io, per esempio, sono stato a guardare, metti che ci sia anche salito sopra a premere un po', ma non era compito mio quello di farla bene, era un altro che aveva il compito di farla bene. Ha capito?

[147] Un informatore di Lozzo con il termine vélma ha indicato un fascio di fieno, legato con una fune in cuoio e trascinato tirando la fune dall'alto del prato verso il basso dove si trova il fienile.

[148] I pattini erano ricavati da un'unica lunga trave, solitamente di faggio, dotata di una naturale curvatura .

[149] Mathe è un termine molto generico che indica generalmente dei bastoni lunghi utilizzati in diverse maniere; le mathe da fasói\fasuói sono ad esempio i bastoni che vengono conficcati nel campo per permettere alla pianta de fagiolo di arrampicarsi e crescere in altezza. Questo termine, usato per indicare le prese della slitta da fieno, è stato riferito da un informatore di Domegge.

[150] Il termine ciathe è stato usato a Calalzo.

[151] Questo termine è stato usato da un informatore di Lozzo ed è conosciuto anche ad Auronzo. A San Vito di Cadore per legare il carico di fieno al carro vengono usate sei funi più la soragna, ovvero una fune più spessa con la stessa funzione della còntra. Fonte orale

[152] A Lozzo viene usato il termine inbrasidà per indicare il lavoro di sistemazione dei legni per contenere il carico di fieno.

[153] Questo termine è stato riferito da un informatore di Laggio.

[154] G. P. e P. D., anni 63 e 69, ex contadini, Lorenzago di Cadore, autunno 1998.

P. Io ho falciato per tanti anni a mano, anche. Perché ero insieme a mio fratello. Allora in quegli anni si falciava a mano, tanto a mano.

G. E poi si andava sul passo Mauria, che lì ci sono tanti posti, a falciare in ogni buco. E mi ricordo che il segativo era tanto scarso, perché tutti falciavano il proprio terreno. Si falciava dappertutto, eh, perché avresti dovuto vedere dove non si andava, andavo col falcetto. Andavamo a falciare sul confine di quelli di Forni, e io mi divertivo, perché sapevo che era scarso, mi sembrava di far delle bravate sul confine di quelli di Forni, con una paura che non so, a strappare un po' di erba per portarsela via, iòso!

D. E poi quest'erba come la trasportavate? Questo fieno, perché ormai...

P. Sì, fieno. C'era la slitta, con le slitte o col carretto, se le strade erano buone, se c'era la stagione buona che non c'era tanta neve.

D. E una volta io, mio fratello e un altro partivamo di notte per andare a prendere il fieno, perché c'era la neve ghiacciata, che si stava a tòdhol, si diceva.

P. A tòdhol, cioè in superficie. Anche in febbraio, che adesso non c'è più neve in febbraio, c'era la neve che si ghiacciava molto in febbraio, e allora ci stavano sopra. Perché ce n'era anche poca.

P. Si andava a prendere questo fieno anche su per il Passo Mauria, e anche oltre.

G. E io con mio padre, vero, mi portava su, fuori dalla strada, su, su. Lui portava su la slitta, e io corde e cianfrusaglie. Poi bisognava che lo aiutassi, mi portava su anche da ragazza perché lo aiutassi. Scendeva colla slitta fino giù alla strada principale, e laggiù c'era il carretto. E lì bisognava seguire una procedura per sganciare tutte le corde fra bastoni delle slitte, e non ho mai capito... Stadeà, si diceva... Lo chiamavano stadeà. E quando aveva slegato tutte le corde, ribaltava la slitta e il fieno rimaneva impacchettato ben bene sul carretto. Allora scendevamo col carretto, perché qui in basso c'era terreno sulla strada. Quella cosa lì non la capivo, e lui si arrabbiava!... e non capivo il procedimento di girare una corda da una parte e l'altra corda dall'altra. La slitta restava attaccata al fieno e portavamo giù il fieno bene impacchettato, poi lo legava sotto il carretto e non si muoveva più. Con la corda tutt'intorno, e lo si portava nel fienile.

D. Ma voi avevate tabià anche in montagna, diciamo, oppure si portava tutto a casa?

G. Una volta si aveva più di un tabià.

P. Qualcuno saliva anche col carretto. Se non c'era neve sulla strada, andavano col carretto dove era comodo.

G. Sì, dov'era comodo, ma era su per Sant'Antonio, su verso Stithinói c'erano molti terreni dove non ci si poteva andare con i carretti: con le slitte. Ma andavano avanti finché... Adesso non c'è... sì, sono parecchi anni che non c'è neanche più neve, volendo andare con la slitta.

D. Quindi lo portavate nei tabià?

G. Nel tabià. E una volta partivano presto, mi ricordo che mio padre partiva proprio presto, presto, arrivavano a casa con le barbe piene di ghiaccioli! Gelati, tutti gelati. Con le ghette, poi prendevano le racchette da neve dove non potevano camminare, e i guanti, i passamontagne. Vedendo uno di loro adesso...

D. E il fieno dal fienile alla stalla come si porta?

G. Basta entrare nel fienile e poi lo buttavamo giù per il buco, e arrivava di sotto.

[155] Accanto a questi due termini si trovano rispettivamente anche fién\fén de prime\ e fién de secondo

[156] Si veda Tambre, Tamarì in Andrea Angelini e Ester Cason, a cura di, Oronomi bellunesi, Quaderni scientifici della Fondazione, Padova, Fondazione Giovanni Angelini Editore, 1993.

[157] Una o due capre venivano sempre portate a prà, ovvero in montagna durante la fienagione, per poter disporre di latte fresco ogni giorno; in ogni caso il latte di capra veniva utilizzato in casa al posto di quello di mucca che si preferiva portare in latteria.

[158] La capra, portata al pascolo, mostra una grossa predilezione per le cime e i germogli degli alberi. Sull'argomento di veda Franca Modesti, Emigranti Bellunesi dall'800 al Vajont, Milano, Franco Angeli, 1987 pagg. 176-179.

[159] Sulla diminuzione complessiva dei caprini in provincia di Belluno si veda, I caratteri economici della Provincia di Belluno, Camera di Commercio, Industria ed Agricoltura di Belluno, Città di Castello, Tipografia Unione Arti Grafiche, 1953. Tabella pag. 8.

[160] Ai 300 capi del Comune di Domegge corrispondono i 62 di Calalzo, i 16 di Lozzo, i 115 di Pieve, i 60 di Lorenzago e i 100 di Vigo. I dati sono ricavati da Eliseo Bonetti, L'Otre Piave e il Medio Cadore, op. cit., pag.44.

[161] Nel 1954 Domegge contava 140 capre, Lozzo 174, Calalzo 38, Pieve 40, Lorenzago 25, Vigo 40 su una popolazione rispettivamente di 2674 ab. ( Domegge), 1856 ab. (Lozzo), 2019 ab. (Calalzo), 3679 ab. (Pieve), 776 ab. (Lorenzago), 1945 ab. (Vigo).

[162] M. e L. D. L., anni 81 e anni 54, ex contadina e operaia, Lozzo di Cadore, inverno 1998.

M. Una, una capra, sì.

D. E dove stava questa capra?

L. Anche lei là nella stalla con la vacca.

M. E poi ha avuto, questa capra, una capretta, e poi una volta è andata una nostra capra al pascolo.

L. Raccontale, raccontale un po' di Strìcole.

M. Con la capretta. Quella sera le vado incontro per vedere se arriva, viene la capra senza la capretta, senza sua figlia, diciamo. Allora vado da Rosi, è morta poverina, quella che hanno seppellito l'altra sera: 'Oddìo, Rosi, mi è sparita, non mi è neanche venuta a casa la capretta, dove sarà adesso, dove sarà?' Lei ha detto: 'vieni con me'. C'era Bepi de Bion... 'Vieni con me'. Abbiam preso e siamo andate a Loreto. La chiesa di Loreto. E ancora un pezzo oltre, là lo chiamano Sote Piana, allora ho detto 'Prova a chiamarla, Rosi, prova a chiamare Stricole'. Ha chiamato 'Stricole', ha fatto un 'bee', ha risposto...

D. Quanti mesi aveva questa bestiola?

M. Non aveva tanti mesi. Ha risposto, allora Rosi è corsa giù subito.

D. Si era persa?

L. Si era persa, impigliata giù di là.

D. Ma queste capre perché le teneva?

M. Per il latte.

L. Perché d'estate quando le vacche restavano in asciutta, bisognava avere il latte e allora si teneva la capra per avere il latte.

[163] Questa malga era utilizzata solo dagli abitanti della frazione di Domegge e non da quelli di Vallesella e Grea, frazioni del Comune che praticavano altri sistemi di pascolo. Fonte orale.

[164] A.D., anni 98, ex contadina, Domegge di Cadore , inverno 1999.

D. E dentro la stessa stalla si tenevano vacche, pecore e capre?

- Dipende dalle stalle che si avevano, noi tenevamo anche tre vacche, anche tre una accanto all'altra e poi avevamo le capre e le pecore su in cima alla stalla, pecore e capre.

D. E alle pecore e alle capre si dà da mangiare quel che si dà alle vacche?

- Anche a loro si dà da mangiare lì, avevano la loro piccola mangiatoia, la loro mangiatoia e mangiavano come le vacche, poi.

D. Invece le pecore e le capre si portavano all'alpeggio un po' prima, vero?

- Sì, loro andavano a Doana, andavano tutte a Doana.

D. Mi hanno detto che si faceva anche formaggio di capra?

- Sì, c'era formaggio di pecora e formaggio di capra, c'erano i pastori appositi, a Doana, non ci sei mai stata? Da questa parte c'era la casera delle pecore e dall'altra quella delle vacche.

D. E poi alla fine della stagione si portavano giù dall'alpeggio, tanto le capre che le mucche?

- Eh, sì sì, poi le portavano giù. E prima di salire lassù, andavano a Malòuce, con le pecore e le capre. Sai che c'era una casera anche lì. E poi da là si spostavano e andavano su non appena arrivava l'estate: le vacche andavano in quella casera là dentro e le capre restavano in questa. Le pecore vengono portate lassù tutt'ora.

[165] Nel comune di Domegge la permanenza nella Casera di Malòuce non poteva prolungarsi oltre il 15 di giugno o altrimenti i proprietari del bestiame avrebbero dovuto pagare una quota giornaliera a coloro che avevano in concessione lo sfalcio dei prati della zona. La permanenza oltre la data fissata poteva essere causata dalle condizioni meteorologiche e dalla caduta di neve in alta montagna.

[166] L'informazione è stata data da G. F., anni 69, Vallesella di Cadore, primavera 1997

[167] La casera e la stalla sono conservate ancora in buone condizioni.

[168] G.D.V. e S. M., anni 85 e anni 41, ex casaro ed imprenditore agrario, Vallesella di Cadore, inverno 1999.

D. Queste pecore a Baion e Montanel, andavano da sole o…

G. Sole, sole, ma tutte asciutte, senza latte, senza niente.

D. Non ci stava nessuno, là?

G. No, no no. Anzi: sì, ci stavano, perché per esempio i pastori di quelle parti di vacche eccetera, sapevano dove erano.

S. Magari avranno portato anche una manciata di sale o…

G. Non stavano là, perché anche ai miei tempi mettevano anche i caproni, lassù.

S. Le pecore, tu le lasci da sole, e loro vanno sempre sul punto più alto.

G. Ecco, anche Vedorcia andavano sempre lassù.

S. Perché tendono ad andare in alto. Guarda il cocuzzolo più alto che c'è, loro si mettono là. Perché vogliono dominare, perché vogliono essere sicure di non avere niente alle spalle che possa aggredirle. Ad esempio, quando due anni fa dalla cooperativa è scappata una parte delle pecore da Doana e hanno attraversato là, sono andate su a Sarenede, che sarebbe una montagna del Tudaio, per capirci, la catena… sul posto più alto ai piedi delle rocce. Infatti un pastore di Lorenzago mi ha detto 'Eh, potevate chiedermelo, che vi dicevo subito dove andavano'. Perché una volta, loro che pascolavano in Val da Rin o a Losco, le pecore quando si allontanavano finivano su per le rocce, il posto lo chiamano i Sarenede.

G. Perché loro le mettevano là, no, anche lui a Vedorcia è andato a trovarle lassù.

S. Eh sì, in cima ai colli. E quando hanno iniziato a partorire sono andate in Forcella Spe, sotto le rocce, dove si sentono protette, probabilmente. Loro più in alto di così non vanno.

D. Fino a quando sono state portate a Montanel?

G. Allora, stia attenta, ai miei tempi no. C'era sempre la monte di Montanel, quegli agnelli là, per esempio; a Baion sì, anche ai miei tempi, perché anche a Baion… Ma siccome dopo ce n'erano di meno, le portavano là, e c'era un certo Da Vanzo, il padre di Ulisse, che faceva il pastore.

[169] T. D.M., anni 75, Lorenzago di Cadore, primavera 1999, riferisce che i corleti, oltre ad essere fabbricati da artigiani locali venivano acquistati da venditori ambulanti provenienti dalla Carnia.

[170] T.M., anni 75, ex contadina, Lorenzago di Cadore, inverno 1999.

Avevo una pecora che ne faceva ogni anno due, e allora ho fatto anche presto a raccogliere la lana; altrimenti, una pecora per ogni casa, se non c'era uno scopo…..E durante la guerra mia madre ce l'aveva e io…Filava lei, e filavo…anch'io, mò, filavo.

D. Dopo mi dice come si fa, allora.

A filare? Eh guarda, filare non è mica niente di particolare, ma ci vuole l'arcolaio, e il fuso...

D. Ma allora, viene tosata la lana: e poi della lana cosa si fa? Mi dica proprio tutto, perché io non ho mai visto.

No. Allora, sta' attenta: per tosare la pecora le si legano le gambe davanti e dietro, vero, le due dietro e le due davanti perché stiano ferme, su un tavolaccio. E poi con un po' di delicatezza, per non fargli troppi buchetti, con le forbici le si tosa. E per filarla si conserva la schiena, la lana della schiena, che è bella, lunga e pulita. Poi con quell'altra si faceva cuscini o qualcosa...perché ce n'erano tante con le caccole....insomma, erano da scartare. Allora o le donne vecchie, magari filavano per far calzini o cose più secondarie. Ma per far venire fuori una bella lana...era la lana della schiena che er anche bella lunga. E poi bisognava filarla quand'era ancora da lavare, perché avesse dentro il suo grasso, che sarebbe la famosa lanolina, vero. Allora riesce bene. Se è filo lo si mette sulla rocca, la canapa, mia madre filava anche quella; se è lana, invece, la si tiene con la mano. Allora, vero, c'è l'arcolaio...Ha presente l'arcolaio, vero? E il fuso. Si andava a fissarlo dentro... Eh, adesso non ho qua l'attrezzo, ma...è bello filare, eh? Bisogna prendere un po' la mano e dargli il ritmo giusto del piede sul pedale per far andare la corda, sì...

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