Il lavoro nei boschi.
La tradizione ladina dell'Alto Bellunese.

L'esbosco.

Come si è precedentemente accennato la fase di esbosco, menada/disbosco/desàlvo, avveniva principalmente nei mesi autunnali e invernali in virtù di molteplici ragioni. I tronchi durante l'estate avevano il tempo per essiccarsi ed alleggerirsi. Inoltre, con l'abbassarsi delle temperature, il terreno diventava duro o addirittura gelato e il loro trascinamento, tirà taie/tirà taai, ne risultava facilitato. Per giunta quasi tutti i boscaioli, come del resto la maggior parte della gente di montagna, possedevano dei prati coltivati a foraggio; il mese di settembre e in parte quello di ottobre, erano dedicati al secondo taglio dell'erba.

Lo strumento principe per questo lavoro era lo zappino da tronchi, thapin, usato in vari modi a seconda delle diverse situazioni. Per spostare un tronco incastrato veniva infilata la punta sotto una testata e, utilizzandolo come una leva, si compiva simultaneamente un movimento di sollevamento e traslazione. Il termine tecnico utilizzato per indicare quest'azione era pàis. Per ruotare i tronchi lo si utilizzava impiantando leggermente la punta su una testata e tirandolo nella direzione desiderata con un movimento rapido, tale da permettere il ripetersi dell'azione più volte, fino al totale raggiungimento dello scopo. Se la medesima azione avveniva al centro del tronco, si otteneva il suo rotolamento. Infine, quando era necessario trascinare i tronchi, si conficcava la punta nel legno con maggior forza, in modo che l'appiglio fosse più profondo e tale da non staccarsi improvvisamente, causando la caduta del boscaiolo. Se il tronco era di grosse dimensioni quest'operazione veniva eseguita da più uomini contemporaneamente. Per non intralciarsi a vicenda, essi si disponevano ai lati del pezzo, configgendovi lo zappino nella parte anteriore (di avanzamento) e centrale. Per sincronizzare lo sforzo e di conseguenza massimizzare il risultato, utilizzavano un comando vocale detto "il colpo" dato da uno di loro, al quale tutti ubbidivano. Chi "chiamava il colpo", ciamà l colpo, soleva dire: "ooo op". Al primo suono "ooo" gli uomini si mettevano in posizione utile per tirare il tronco, ma il vero sforzo lo effettuavano solamente al secondo comando, "op", trascinandolo il più possibile. Di solito lo spostamento era minimo, non più di un metro, ma poteva capitare che non avvenisse nemmeno. Se il tronco era distante dal luogo di destinazione oppure era particolarmente pesante, i boscaioli procedevano in questo modo fino al raggiungimento della meta stabilita. Al contrario, se era relativamente piccolo, il comando veniva in parte modificato: "ooo longa". In questo caso gli uomini lo trascinavano fino a quando ne avevano la forza, comunque non più di quattro cinque metri per volta.

La fase di esbosco iniziava con la concentrazione dei tronchi nei luoghi utili, ingrumà/sturtà, che, a seconda dei casi, erano le vicinanze degli impluvi naturali, dei canali artificiali, detti risine, o delle teleferiche.

Vie di esbosco naturali

I boschi della zona dolomitica sono per la maggior parte dei casi situati su versanti scoscesi dove l'acqua delle precipitazioni e delle sorgenti naturali forma nella propria discesa verso il fondovalle degli impluvi di varie dimensioni. In genere, gli avvallamenti più piccoli confluiscono in altri di maggior entità, fino al definitivo raggiungimento nel corso d'acqua principale, posto a fondovalle. Sfruttando questa struttura capillare di impluvi, Ludà/lavinà/menador/martor, veniva eseguito l'esbosco di buona parte del legname prodotto. I tronchi venivano ammucchiati in prossimità dell'avvallamento più vicino che, preferibilmente, doveva avere un'elevata pendenza, in modo da favorire lo scivolamento del legname. Solamente dopo che tutti i tronchi erano stati ammucchiati iniziava la vera e propria conduzione, imbignadura/menada/condota.

Il caposquadra assegnava a ciascun boscaiolo un compito, in funzione delle capacità personali e dell'esperienza che richiedeva ogni specifica mansione. Due uomini erano addetti all'immissione dei tronchi nell'impluvio mediante lo zappino. Altri due o tre stavano all'arrivo e avevano il compito di ammucchiare i tronchi in cataste provvisorie. I rimanenti uomini, soprannominati poste, si disponevano lungo l'avvallamento, in prossimità di eventuali punti critici dove i tronchi poteva fuoriuscire o incastrarsi formando uno sbarramento, ed intervenivano in caso si verificassero tali circostanze, disincagliandoli e rimettendoli in movimento. Appena tutti gli uomini erano in posizione, il lavoro poteva avere inizio. Anche in questa fase, come per tutte le attività che consistevano in un movimento del materiale legnoso, vi erano dei comandi precisi che gli uomini si scambiavano per evitare di infortunarsi gravemente. Il segnale di inizio del lavoro: carga, veniva dato dai boscaioli che si trovavano più a valle e stava ad indicare che i tronchi potevano essere immessi all'interno dell'avvallamento. Il comando giungeva agli uomini in alto mediante il passaparola delle poste, ma prima di iniziare la conduzione essi confermavano di aver inteso il segnale, mediante un comando di risposta: vardabaso/tiohin/ciohin. Se non vi erano altri segnali, il lavoro poteva iniziare con la consapevolezza che nessuno si trovasse sulla traiettoria dei tronchi e proseguiva regolarmente fino ad altro ordine. In genere venivano fatti scendere trenta, quaranta tronchi, dopo di che i boscaioli a valle davano il segnale di interruzione: bauf, che giungeva in alto sempre mediante il passaparola. Gli addetti al carico, per indicare che avevano inteso, rispondevano: segura/tiohin/ciohin, se nel canalone non vi erano dei tronchi in movimento, altrimenti: par aria. Appena il segnale arrivava, gli uomini a valle potevano spostare ed accatastare i tronchi in tutta tranquillità. Terminato il lavoro davano nuovamente il segnale di carga e l'operazione poteva ricominciare daccapo. Gli stessi segnali venivano utilizzati anche dai boscaioli disposti lungo gli avvallamenti, in tutte quelle situazioni in cui si richiedeva un loro intervento. Se una squadra era ben affiatata, in una giornata di lavoro venivano esboscati decine di metri cubi di tronchi.

Questo tipo di lavoro era visto di buon occhio dai boscaioli in quanto non era particolarmente pesante e non richiedeva un impegno costante, ma permetteva lunghe soste sfruttate per fare quattro chiacchiere e fumare una sigaretta.

La costruzione della risina

Le operazioni di esbosco dei lotti di legname che si trovavano in versanti poco scoscesi o in prossimità dei torrenti di fondovalle, richiedevano spesso la costruzione di manufatti a forma di scivolo denominati risine, rišina/lisa. Queste venivano costruite con gli stessi tronchi da esboscare secondo delle tecniche particolari, tramandate da generazione in generazione, raggiungendo lunghezze anche superiori al chilometro. Chi la costruiva era il boscaiolo esperto capace di riconoscere i punti migliori dove farla passare e di prevedere l'andamento dei tronchi durante la discesa, che spesso avveniva ad altissime velocità.

La risina doveva avere una forma a canalone semicircolare e richiedeva per la sua realizzazione l'utilizzo di tronchi di differenti dimensioni, in funzione delle diverse componenti. Per il fondo venivano impiegati tre, quattro cimali disposti in modo da creare una certa curvatura, tenuti saldamente uniti da paletti conficcati nel terreno. Per le sponde, che subivano le maggiori sollecitazioni, erano necessari dei tronchi con diametro maggiore, che venivano appoggiati a dei pali più lunghi, bailogn, anch'essi piantati profondamente nel terreno. Nelle curve, dove la forza centrifuga era più intensa, le sponde venivano rialzate e rinforzate con l'aggiunta di ulteriori tronchi. Se c'era bisogno di legare maggiormente la struttura venivano impiegati bei chiodi di legno, brocia/broca, che, a differenza di quelli di ferro, non danneggiavano i tronchi durante lo scivolamento. I chiodi venivano infilati in appositi fori praticati con delle trivelle a movimento manuale. Solitamente la risina era appoggiata a terra ma, in prossimità di buche o avvallamenti, doveva essere rialzata mediante una serie di tronchi formanti una struttura portante sulla quale veniva posata. La sua realizzazione richiedeva molti mesi di lavoro soprattutto se il terreno era accidentato e vi era la necessità di erigere diversi tronconi sopraelevati. I tronchi utilizzati per la sua costruzione, venivano esboscati nel momento in cui vi era la necessità, sfruttando la parte già costruita e verificandone allo stesso tempo la scorrevolezza e resistenza. Il lavoro proseguiva fino al raggiungimento di un grande piazzale dove era possibile l'ammucchiamento dei tronchi in cataste, tason/canthel/camol, alte anche cinque metri. Se però la distanza del lotto dal piazzale di accatastamento era troppo elevata e non vi erano sufficienti tronchi per costruire un'unica risina, bisognava procedere per tronconi, fino al raggiungimento della meta finale. Al contrario, se il tratto da superare non era troppo lungo e accidentato al posto della risina veniva assemblato il così detto "risinotto", costruito con una tecnica meno sofisticata e di più rapida realizzazione.

Quando la risina era ultimata, poteva avere inizio l'esbosco dei tronchi rimasti, seguendo le identiche modalità utilizzate lungo i canaloni naturali, con l'accortezza di impiegare un numero maggiore di poste a salvaguardia della sua integrità. Prima però bisognava bagnarla, in modo da renderla scivolosa e facilitare lo scorrimento dei tronchi, che dovevano acquistare una velocità sufficiente per poter superare agevolmente i tratti pianeggianti. A tale scopo si utilizzava una frasca di abete, dasa/front/ogia, imbevuta in secchi d'acqua e opportunamente maneggiata. Non di rado questa mansione era affidata al uno o più ragazzi, bòcia/riedo, appositamente reclutati a salario minimo. In certe zone si attendeva un periodo con basse temperature in modo che l'acqua versata nel manufatto gelasse, formando uno strato di ghiaccio estremamente scivoloso. Con questi stratagemmi, la velocità dei tronchi aumentava notevolmente e di conseguenza anche il pericolo di una loro improvvisa fuoriuscita dal canalone, con effetti a volte estremamente gravi sia per i danni che provocavano agli alberi vicini, sia per gli infortuni agli operai che, in certi casi, venivano travolti dai tronchi impazziti. Per tali motivi questo metodo di esbosco era in assoluto il più pericoloso, soprattutto se la costruzione della risina veniva effettuata con poca maestria o con eccessiva velocità. In certi punti particolarmente ripidi, per frenare la corsa del legname, si predisponeva, sospeso con delle corde in mezzo al canalone, un grosso tronco mobile, pandol/batocio, contro il quale gli altri tronchi urtavano rallentando la loro velocità.

Concluso l'esbosco del legname la risina veniva smantellata procedendo dall'alto verso il basso e avvallando a loro volta i tronchi che la componevano. Al termine dei lavori ogni cosa era tornata alla normalità e nessun segno era rimasto sul terreno.

Nonostante la sua evidente pericolosità questa tecnica di esbosco del legname era quella maggiormente in uso nei boschi di conifere del Bellunese e la costruzione delle risine era allo stesso tempo motivo di orgoglio e soddisfazione per tutti i boscaioli.

L'esbosco con la teleferica

Il sistema di esbosco con la teleferica, teleferica, veniva attuato solamente in quei casi dove le risine non potevano essere costruite oppure dove i lotti di legnale erano posti in luoghi troppo distanti e impervi per poterli esboscare con metodi tradizionali. L'impianto di una teleferica risultava però molto costoso e necessitava di manodopera specializzata. Solamente le ditte più grosse possedevano queste attrezzature, che utilizzavano esclusivamente per la conduzione di grossi lotti con un valore commerciale tale da giustificare il loro impiego.

Innanzitutto bisognava decidere il tracciato da percorrere e, se era necessario, abbattere gli alberi che ne impedivano la messa in opera. La teleferica era composta di una fune portante di grosse dimensioni sulla quale correvano i carrelli con i tronchi, e di una fune traente utilizzata per il loro recupero. Le teleferiche più vecchie disponevano di un'ulteriore fune portante di diametro ridotto, necessaria per il trasporto a monte dei carrelli vuoti. Scelto il tracciato, veniva trasportata la fune portante che poteva raggiungere la lunghezza anche di parecchi chilometri e il peso di svariati quintali; l'operazione richiedeva l'intervento di numerosi uomini reclutati sul posto, molti dei quali non erano boscaioli, ma gente qualunque bisognosa di lavorare. Gli uomini, disposti in fila indiana, trasportavano alcune spire di fune ciascuno, lasciando tra l'uno e l'altro un tratto di cavo libero necessario per camminare agevolmente. Ogni tanto veniva fatta una sosta, bauf, per riprendere fiato. Arrivati in cima, la fune veniva stesa lungo la linea scelta in precedenza e messa in tensione attraverso un sistema di paranchi a quattro carrucole. Lo stesso sistema veniva impiegato per il trasporto e la messa in posa della fune traente. Attraverso una serie di tralicci e pulegge le funi attraversavano avvallamenti e torrenti giungendo in prossimità di grandi piazzali che si riempivano ben presto di imponenti cataste di tronchi.

Le prime teleferiche non erano provviste di pescante, che permetteva di recuperare i tronchi posti nelle posizioni più defilate, tanto che i boscaioli dovevano raggrupparli sotto il tracciato da dove venivano poi legati, mediante delle grosse catene, al carrello che li trasportava a valle. Era indispensabile quindi che il lotto non fosse troppo esteso in larghezza, ma piuttosto che seguisse l'andamento della teleferica.

Anche questo tipo di esbosco presentava dei rischi per gli uomini che spesso lavoravano in prossimità della teleferica, dalla quale potevano staccarsi i tronchi mal legati o eccessivamente oscillanti. Queste attrezzature suscitavano sempre un notevole interesse ed erano al centro di numerose conversazioni fra i boscaioli e gli abitanti dei paesi limitrofi, che spesso assistevano alle operazioni di trasporto del legname.

L'esbosco con le slitte

La particolare conformazione dei boschi e le ristrettezze economiche obbligavano spesso i boscaioli a ricorrere al più antico e faticoso metodo di conduzione del legname, consistente nell'utilizzo di slitte trascinate a mano, senza l'ausilio di forza animale e meccanica. L'esbosco avveniva durante l'inverno impiegando una slitta di particolare fattezza, cocio/strotha/stroda, costruita appositamente per il trasporto dei tronchi. Le sue dimensioni erano molto ridotte sia in altezza, trenta quaranta centimetri da terra, che in larghezza e lunghezza, ma la sua resistenza era notevole e adatta a sostenere grandi pesi. I tronchi non venivano caricati interamente sulla slitta, ma appoggiati solamente con una testata lasciando scivolare l'altra sulla neve. Venivano poi legati saldamente con delle corde di canapa o di pelle sfruttando particolari scanalature presenti su alcune componenti della slitta stessa. Nei tratti di bosco dove la pendenza era nulla o vi erano delle piccole salite da affrontare, si rendeva necessario utilizzare un'ulteriore slitta, strothin/coceto, sulla quale far appoggiare la parte posteriore dei tronchi, fissandoli con delle catene agganciate mediante piccole graffe. La legatura serviva a creare un tutt'uno evitando che la slitta posteriore, muovendosi, prendesse delle direzioni sbagliate. Questo accorgimento si rendeva necessario quando si utilizzavano delle slitte posteriori prive di timone, costituito da un travetto di legno agganciato alla slitta anteriore, che permetteva alle due entità, ciareth/cocio, di percorrere la medesima traiettoria. Entrambe erano provviste di lame di ferro fissate sotto i pattini, mediante chiodi o viti, che ne facilitavano lo scivolamento e impedivano il logoramento dei pattini stessi.

Su questi mezzi di trasporto venivano caricati al massimo due, tre tronchi di piccole e medie dimensioni oppure uno di diametro maggiore, affiancato da uno più piccolo necessario per impedirne il rotolamento e migliorare la stabilità.

Quando si dovevano affrontare delle discese pericolose venivano preventivamente arrotolate intorno ai pattini, audis/udis/luoster/lodin, delle robuste catene d'acciaio, ciadene/morone, con funzione frenante, mentre il guidatore, per evitare gli scivoloni ed avere un maggiore controllo sulla slitta, applicava sotto gli scarponi i ramponi da ghiaccio, grife.

Arrivati nel posto stabilito, i tronchi venivano scaricati ed accatastati dagli stessi conducenti che, dopo una piccola sosta, si caricavano la slitta in spalla e risalivano per continuare il lavoro.

Questo tipo di esbosco era estremamente faticoso e richiedeva una notevole agilità e forza fisica sia per condurre la slitta lungo le discese, sia per trascinarla nei tratti pianeggianti.

L'esbosco con i cavalli

I cavalli, ciavai, venivano frequentemente utilizzati dai boscaioli, che ne sfruttavano l'agilità e la forza poderosa per muovere i tronchi più grossi e trascinare le piccole slitte, con le quali, in inverno, si effettuava l'esbosco dei lotti di legname situati in zone pianeggianti. La loro versatilità e ubbidienza ai comandi li faceva preferire ai muli, animali dal carattere scontroso e anarchico, e ai buoi, più forti ma molto meno agili e veloci.

In tutte le utilizzazioni boschive i cavalli venivano comandati da terra tenendoli saldamnte per il morso. Prima che cadesse la neve erano impiegati per trascinare i tronchi a strascico, disboscà a balanthin, in prossimità delle strade camionabili. Se all'interno del bosco vi erano delle carreggiate, bigothere, si utilizzava invece i carri. Dove le pendenze erano elevate si impiegava solamente il treno anteriore, bigotha, sul quale venivano caricati solo parzialmente alcuni tronchi. A questi, mediante degli appositi ganci con catena, strothi/strothes/cromper, ne venivano attaccati degli altri completamente a strascico, che producevano un'azione frenante. In presenza di discese più dolci, al treno anteriore del carro veniva agganciato, mediante un timone, quello posteriore, ciariola, senza peraltro sganciare i tronchi precedentemente issati, mete in ciariola.

In inverno si utilizzavano le slitte, simili a quelle sopra descritte, cocio. Ai tronchi issati parzialmente sulla slitta ne venivano agganciati degli altri, a strascico. Con questo sistema un cavallo poteva trascinare fino a quattro metri cubi di legname per volta.

Non tutti i boscaioli potevano permettersi il mantenimento di un cavallo per l'intero anno e ricorrevano spesso all'affitto degli animali per il periodo strettamente necessario. Oppure impiegavano i buoi, meno delicati e costosi dei cavalli in termini di alimentazione, anche se svolgevano il lavoro con maggiore lentezza. Alcuni intervistati del Comelico ricordano di lunghe file di buoi utilizzati durante l'inverno per il trasporto dei tronchi dal bosco direttamente alla segheria.

Il trasporto dei tronchi in segheria

I tronchi esboscati ed ammucchiati in cataste venivano ben presto trasportati nelle segherie, sieghe/seghe, mediante l'utilizzo di carri trainati da cavalli e, più recentemente, di camion. Non essendovi dei mezzi meccanici di caricamento, i tronchi venivano issati manualmente utilizzando corde e zappini, nonché una serie di stratagemmi necessari a ridurre la fatica. Tra il pianale del cassone e la catasta, venivano disposte due lunghe travi, paradori/soies, provviste di particolari arpioni, sulle quali far rotolare i tronchi. Tanto maggiore era la loro lunghezza, tanto inferiore era la pendenza da superare e di conseguenza la difficoltà e lo sforzo durante il caricamento. Attorno al tronco da caricare venivano fissate ed in parte arrotolate due resistenti corde, tirando le quali si otteneva il suo rotolamento lungo la rampa. Man mano che il carico aumentava, cresceva anche l'inclinazione delle travi, tanto che per ovviare a questa situazione le grandi cataste venivano suddivise in più livelli di carico di altezza variabile, al fine di mantenere una pendenza il più possibile costante.

Questo tipo di lavoro, per il quale le ditte acquirenti assumevano spesso manodopera locale, presentava parecchi rischi e richiedeva un grande dispendio di fatica e di tempo.


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