Il lavoro nei boschi.
La tradizione ladina dell'Alto Bellunese.

Il mangiare e il vestire.

L'alimento comune in tutti i cantieri boschivi era la polenta, polenta, cotta sul posto in grandi paioli di rame, ciodrutho/ciaudrin/caliera, che il cuoco di turno, cogo, si portava da casa. L'addetto alla cucina era spesso un ragazzo, bòcia/riedo, incaricato dell'approvvigionamento della legna per accendere il fuoco e dell'acqua necessaria per la preparazione della pietanza. Dove l'acqua non era reperibile nelle vicinanze, ogni uomo se ne portava un certo quantitativo da casa.

Il paiolo veniva appeso ad un basrone opportunamente tagliato, musa, conficcato obliqualente nel terreno vicino ad un rudimentale focolare costituito da sassi, disposti a ferro di cavallo per permettere l'introduzione della legna nell'apertura appositamente creata.

Di solito la farina veniva acquistata in comune ma, durante il periodo del fascismo, quando cioè per l'approvvigionamento dei viveri era necessaria la "tessera", che dava il diritto ad un certo quantitativo pro capite di alimenti, ognuno si portava la propria razione giornaliera di farina di frumento (circa tre etti), che il cuoco poi univa nel medesimo paiolo. La polenta veniva cotta per circa un'ora, rimescolata più volte per impedire che si bruciasse o che si formassero dei grumi. Quand'era pronta il cuoco gridava: dura, invitando i boscaioli ad avvicinarsi per il pranzo, marenda/disnà. La sua riuscita dipendeva, ovviamente, dall'attitudine del cuoco, ma nondimeno dal numero di uomini che la dovevano mangiare. In certi cantieri boschivi vi erano anche quaranta boscaioli che facevano la pausa pranzo alla medesima ora e per i quali spesso il convitto non era una vera gioia, costretti a mangiare la polenta troppo cruda o troppo cotta, molle o dura come un sasso. Comunque la fame c'era ed era tanta, tanta che difficilmente nel pentolone restava qualcosa.

Come companatico, companadgo/companašego/companadego, ognuno si portava da casa ciò di cui disponeva, che per la maggior parte equivaleva al pezzo di formaggio di latteria, formài, prodotto dal latte delle proprie vacche. I più facoltosi potevano permettersi il lusso di pasteggiare con il salame, salame, le salsicce, luganeghe, la pancetta, pantheta, o con uno degli altri prodotti caserecci ricavabili dall'uccisione del maiale, abilmente preparati ed affumicati seguendo vecchi segreti tramandati da padre in figlio.

Assieme al cibo, qualche volta, c'era la possibilità di bere uno, due bicchieri di vino, vin, anche se durante il pranzo la bevanda più consumata era l'acqua, aga/aiva, riservando il vino per il pasto serale che prevedeva quasi sempre il minestrone con fagioli, minestron, a volte insaporito con un osso di maiale affumicato.

Al mattino era consuetudine fare colazione semplicemente bevendo del caffè accompagnato tutt'al più da un pezzo di pane e formaggio, seduti intorno al fuoco per riscaldarsi dal freddo patito durante la nottata. Quando il pernottamento avveniva in prossimità delle malghe caricate per l'alpeggio, c'era la possibilità di acquistare del latte fresco, che veniva consumato assieme al caffè e al pane, pan, spesso raffermo ed immangiabile, soprattutto se la permanenza fuori casa durava per molti giorni, tanto che qualcuno lo sostituiva con un pezzo di polenta semmai avanzata dal giorno prima.

Per quel che riguarda gli indumenti utilizzati per il lavoro, non vi erano delle divise apposite, ma ognuno si metteva quello di cui disponeva; spesso erano abiti malconci, più volte rammendati e rattoppati dalle donne di casa, carichi di resina tanto da assumere colorazioni e consistenze diverse da quelle originarie. I pantaloni, braghe/bragheses, di tela erano i più utilizzati in quanto assorbivano meno la resina ed erano più resistenti alle abrasioni e agli strappi. In inverno erano preferiti i calzoni di lana alla zuava, sopra ai quali venivano indossate le ghette di panno di lana follata, alte fino al ginocchio e legate sotto gli scarponi con delle corde di canapa, calthogn/calthoi/ciauthogn. Esse, oltre ad avere una funzione impermeabile, servivano anche a riparate le estremità dal freddo e da eventuali contusioni provocate dal contatto con i tronchi. In estate venivano indossate delle camice di tela a maniche lunghe, ciamise/ciamede, sostituite in inverno con quelle più pesanti di lana. Durante i mesi freddi tutti disponevano di maglioni di lana fatti a mano e di giacche, iachete/giachete, che venivano tolte durante il lavoro ed indossate nelle pause o al termine dell'attività lavorativa. Ai piedi, sopra delle robuste calze di lana grezza (fatte a mano), ciauze, tutti portavano gli scarponi o delle scarpe pesanti con la suola in legno e tomaia in pelle, entrambe provviste di ferri a quattro punte posizionati sotto il tacco, scarp da fer. In alternativa erano utilizzati dei ramponi a sei o otto punte, grife/grif, agganciati sotto gli scarponi mediante delle corde di canapa. In inverno, tali accorgimenti erano indispensabili per poter camminare con una certa sicurezza lungo i sentieri ghiacciati percorsi più volte al giorno per il recupero del legname, o in tutte quelle situazioni pericolose dove era necessario salire sopra i tronchi, come ad esempio durante il loro accatastamento. Un cappello malandato, ciaplat/ciapelato/robul, o un berretto di lana, bareta, completavano l'abbigliamento dei boscaioli, non molto diverso da quello di un qualsiasi lavorante costretto ad un mestiere di fatica.


note home