Il ladino cadorino nelle attività rurali.

Le attività pastorali in Centro Cadore. Un percorso etnografico.

 

1.2 La fecondazione ed il parto

La fecondazione

Nella maggior parte dei paesi del Centro Cadore le bovine venivano fecondate da gennaio ad aprile in modo che il parto avvenisse in autunno, un mese o due dopo la discesa dai pascoli. Ogni paese disponeva di una monta taurina, stala de i tore, che era tenuta da privati o da una società cooperativa che spesso gestiva anche la latteria. Il 7 settembre 1982, venne approvata nel Comune di Domegge una 'Capitolazione convenzionale formata dai maggiori possidenti di animali relativa alla tenuta di tre tori per la propagazione dei vaccini a Domegge'. Lo scopo era di stabilire delle regole per la gestione materiale e finanziaria delle monte taurine e soprattutto per migliorare la razza, attraverso la scelta dei tori e il controllo dello stato di salute delle mucche che venivano portate per l'accoppiamento. [56] L'attenzione rivolta alla tenuta e alla scelta dei tori mostra l'importanza che veniva riconosciuta a tale funzione. Tuttavia, come sottolinea Antonio Barpi [57], nei paesi del Cadore c'era l'abitudine di usare per l'accoppiamento tori di giovane età, non adatti al miglioramento della razza. Agli inizi del '900, quando la monta taurina fu affidata, in molti paesi, alle società cooperative delle latterie, erano spesso i soci che dovevano provvedere al mantenimento degli animali, corrispondendo una somma per ciascuna monta e una quantità di fieno o altro, in base al numero di bovine possedute. A Lozzo, come ricorda un informatore, negli anni 1950-'60 i soci erano obbligati a consegnare cinquanta chili di fieno per ogni mucca tenuta in stalla; a Pelos prima della monta i soci dovevano presentare un'abbondante quantità di farina di granoturco e avena, senbola e vena. Il numero di tori allevati poteva variare da paese a paese; in media c'erano tre tori per un numero di 200-250 vacche. Le manze, mande, venivano fatte accoppiare, menà dal toro, di dal toro, verso i due anni in modo che venissero a partorire di poco meno di tre anni, quest'età era consigliata anche dai veterinari, ma molti informatori ricordano che i vece de n òta, le facevano fecondare molto più giovani per usufruire quanto prima del latte.

La monta avveniva in stalla ed era abitudine che fosse la mucca ad essere portata dal toro. Si teneva ferma la mucca ad un palo, lasciando più o meno libero il toro. A portare la mucca dal toro erano solitamente i proprietari i quali, o per esperienza personale o perché consigliati da un vicino, avevano verificato il 'calore'. L'espressione per indicare quando l'animale era in calore è mateà, la vacia mateàa\èa, che indica appunto quell'insieme d'irrequietezza e agitazione della mucca che la porta a muggire spesso e saltare anche addosso alle altre mucche. Segno inequivocabile del momento propizio per l'accoppiamento era in ogni caso la secrezione di un liquido giallastro dagli organi genitali, le bicia fòra limadure par davòi. Non sempre il servizio del toro era veloce, a causa anche della resistenza delle bovine più giovani e talvolta non andava a buon fine e la bovina restàa vuóita\ guoita. La monta poteva essere effettuata più volte fino a quando l'allevatore doveva rassegnarsi di avere in stalla una sterpa, una vacca sterile da vendere il più presto possibile. Quando la mucca veniva portata al toro o quando doveva partorire era tenuto nascosto ai bambini, ai quali non era dato sapere ciò che accadeva e tanto meno assistere all'evento. A loro venivano raccontate storie e in ogni paese c'era un pastore o un bravo allevatore a cui veniva affibbiato il ruolo della 'cicogna'.

Il parto

Il parto nel mese di ottobre era congeniale al sistema d'organizzazione lavorativa dei paesi. Il pascolo estivo permetteva all'animale di camminare e muoversi dopo un lungo periodo di immobilità nelle stalle, fattore importante per rendere più facile e meno pericoloso il parto. La mucca, inoltre, nell'ultimo periodo di permanenza in montagna, avvicinandosi alla fine della gestazione, diminuiva notevolmente o completamente la produzione di latte, per ricominciare dopo il parto in coincidenza con la riapertura delle latterie. Infine i mesi invernali, nei quali la maggior parte delle mucche partoriva, corrispondevano al momento di minor lavoro per i contadini.

Ad assistere al parto erano solitamente i proprietari, coadiuvati da vicini esperti o, in caso di complicazioni, da veterinari. Un tempo, il momento della nascita del vitello prevedeva l'intervento degli uomini, mentre oggi tutti gli allevatori sono concordi nel sostenere la necessità di agire solo in caso di vero bisogno; una volta la paura di perdere l'animale e la fretta di aiutarlo a sgravarsi portava a serie complicazioni.

Lo scalciare, l'irrequietezza dell'animale, le ciaspedéa, le agitade, e l'ingrossamento delle mammelle e soprattutto il rilassamento delle fasce del bacino, molà le corde, indicava l'avvicinarsi del parto. Da quel momento la mucca era tenuta sotto controllo e molti allevatori trascorrevano la notte dormendo in stalla, per essere presenti al momento del parto.

Dopo le doglie preparatorie compariva il sacco 'delle acque', la fasèa prima l balón, la bessìa de le àghe\èghe, le bucia fòra come na bissìa, e dopo chela la se crèpa, quindi veniva verificata la posizione del nascituro. Se questo si presentava con le zampe, thate\giarlete, anteriori e la testa, inpostà dreto, dopo aver lubrificato la parte con olio, era sufficiente legare due corde alle zampe del vitello e tirare seguendo i premiti della bestia. Si trattava di due corde di canapa munite, all'estremità esterna, di un bastone trasversale che permetteva una migliore presa. Per far nascere l vedèl, a volte molto grande, poteva essere necessario l'aiuto di più uomini, che puntando i piedi a terra tiravano con gran forza. Poteva accadere, e non di raro, che il vitello si presentasse storto o peggio, che nelle ultime ore prima del parto fosse subentrata una contorsione dell'utero. In questi casi era necessario ricorrere all'intervento del veterinario che spesso si avvaleva di metodi non dissimili a quelli in uso tra i contadini. Tentativo estremo di riportare in posizione regolare l'utero, era far girare la mucca su se stessa con un movimento contrario a quello avvenuto all'utero. Una porzione di prato, vicino alla stalla, veniva cosparsa di fieno; alla mucca, stesa a terra, erano legate le zampe e dopo con la forza di più uomini, l'animale era lentamente capovolto. A volte tutto andava bene, a volte l'animale doveva essere ucciso. Verso gli anni '70 venne introdotto l'aiuto parto, uno strumento formato da una leva, parancol¸ che permetteva di esercitare una maggiore e costante forza al momento di far uscire, tirà fòra, il vitello.

Il piccolo appena nato veniva asciugato con della paglia o del fieno, parchè l ién fòra duto biandà e ripulito dei liquidi che rimanevano in bocca. Non pochi erano i vitelli che faticavano a reagire ed alzarsi, allora veniva buttata loro dell'acqua gelida nelle orecchie ed erano aiutati a muovere le zampe. Questo compito prevalentemente femminile, le donne vi provvedevano mostrando le stesse attenzioni che avrebbero rivolto ad un neonato e somministrando talvolta piccole quantità d'acqua e zucchero. Un tempo avvicinavano subito il vitello alla madre affinché lo leccasse, lénde, stimolando così la circolazione sanguigna. L'ombelico veniva tagliato e disinfettato con tintura di iodio ed il vitello era legato con una catena in un angolo.

D. Cuan che le avèa da fèi, lui assistìelo ai parti?

S. Li fasèo ió, benedheta! Cuan che le fasèva?

L. Cuan che se le vedhèa, se savèa che l era su i nove mes, che se saèa che le aèa da fèi, se dhèa senpre….se levàa de nuóte a dhi a vedhe. Pò se vedhèa se l aèa mal o se no le aèa.

S. L primo sarviso i fasèa le àghe, saràe che in parole nostre?

L. Le àghe.

S. Le àghe proprio, dopo ienèa fòra dhói giarlete, ciamóne i pès noi.

L. Ienèa fòra i pès. Le fasèa prima l balon, te vedhèe che ienèa fòra, alora l vardhàa, l ciapàa co le corde i leèa i pès, te tacàe a tirà e alora tiràa…che se vedhèe che venièa avanti, i ciamàa omis.

S. E pò venièa fòra co la testa, col muso, e pò la testa, e pò tira, tira, calchiòta restàa ca a metà e morìa.

D. Parchè?

S. Parchè i se soféa.

L. Éh, era un pensier tremendo…

D. I me à dhito che calche òta bisogna a dhi a sbusà…

L. Parchè é le àghe che no se sbusa la bessìa, alora bisogna sbusala.

S. La bessìa saràe... saràe chel lìcuido che invita al parto, no é così no?

D. Come se ciàmelo sto balon?

L. No sèi.

S. Noi ciamon le àghe.

L. Ciamón la bessìa de le àghe.

D. E cuan che é ienesto fòra sto vedhèl, cosa elo da fèi?

S. Niente.

L. Alora, le se biciàa anche dhó, se lo tiràa fòra, pò le à da tirà fòra le onge, no sèi chel che le à n tra le onge.

S- I nasse co le onge …

L. Ntiere.

S. In maniera che là inte no i fathe mal, no. Te tire fòra le onge, che saràe chel che à da vegnì fòra, e resta l thòcol, dison.

L. E pò i à…

S. L umbìco, te tàie chel e dopo bisogna baità che sta vacia bice fòra la mare... ciami chè? La secondina.

L. La curata, e staseóne là a spietà che la fèthe parchè aveóne paura de emoragie, che perde robe, che anche se é moragie no fason niente parchè no se fa ora a fèi. Parchè i dhis che saràe da béte inte l bratho. Ma cuan che scomìnthia no é pì niente da fare [58].

Nelle ore immediatamente successive al parto, la mucca doveva espellere la placenta, la seconda, la mare, la curata: solo allora il vitello veniva attaccato alla madre, betù sóte, per succhiare il colostro, la dussa\ duissa\ iussa. Per stimolare e facilitare l'espulsione della placenta era abitudine molto diffusa far bere alla mucca una sorta di bearon\bevaron, ottenuto dalla cottura di theole\theule bianche, cipolle, rosolate nell'olio. Dopo il parto potevano subentrare diversi problemi tra cui il prolasso dell'utero, le bucia\bicia fòra duto, bucià\ bicià fòra la mare. La prima espressione, 'espellere tutto', lascia intendere la convinzione di molti allevatori, che il prolasso dell'utero fosse accompagnato dall'espulsione dell'intestino. Era questa una situazione drammatica, che spesso portava alla perdita dell'animale, in seguito ad infezioni; inoltre era raro che le bovine con questo difetto, difetade, figliassero successivamente senza problemi. Per evitare il peggio era necessario intervenire subito reintroducendo la parte. Sotto l'utero, fuori uscito, veniva posto uno straccio o delle tavole di legno; l'utero veniva accuratamente disinfettato e pulito con aceto o vino bianco o, come riferiscono alcuni allevatori, acqua e sapone di Marsiglia con èga\àga e saòn bianco. Una volta riportato nella sua posizione per evitare una nuova espulsione, veniva legato l thinturon, ligath, un'imbracatura formata da fasce in canapa e due lunghe cinture in cuoio da porre sulla vagina. Con l'imbracatura spesso era introdotta nella vagina una bottiglia d'acqua fredda da lasciare nelle 48 ore successive. A Lozzo, ricorda un'informatrice, un ligath di proprietà della latteria era sempre a disposizione di tutti i soci che ne avessero avuto bisogno.

La mucca, subito dopo il parto era fatta rialzare e le veniva somministrato del caffè o altra bevanda calda che serviva a confortarla e darle forza. Nei giorni successivi, la bovina era nutrita, oltre che a fieno, con i bearói\bevarói, che stimolavano la produzione di latte. Il primo colostro conteneva spesso del sangue e veniva dato con moderazione al vitello, in quanto poteva avere effetti lassativi, smolèa\àa l corpo, considerati benefici purché non eccessivi. Il colostro, d'aspetto denso, granuloso e di colore giallastro, non poteva essere utilizzato per la produzione dei latticini negli otto-dieci giorni successivi al parto e pertanto era destinato ad usi domestici. Alcuni informatori riferiscono che il colostro veniva talvolta somministrato anche alle bovine.

Nelle settimane seguenti, il vitellino veniva nutrito esclusivamente con il latte. Inizialmente era necessario assistere e guidare il piccolo inesperto a succhiare il latte, talvolta avvicinandolo al capezzolo e spruzzandogli del latte in bocca; era questo un momento difficile che richiedeva tempo e pazienza. Non raramente accadeva che le giovani madri scalciassero e respingessero i figli che dal canto loro, approfittando del momento di libertà, prima di succhiare il latte saltavano per la stalla importunando le altre mucche. Questi e altri motivi, fra cui la possibilità di controllare la quantità di latte da dare al vitello, portarono piano a piano molti allevatori addottare metodi differenti per il nutrimento dei piccoli. Verso la metà degli anni '60 molti erano coloro che ricorrevano al 'biberon', ciucio, per la somministrazione del latte. Evitando il contatto tra madre e figlio era inoltre meno doloroso il momento del distacco, quando il vitello veniva venduto o semplicemente svezzato; tutti gli informatori ricordano che le mucche muggivano in continuazione, le mulìa, soffrendo per l'allontanamento del vitello tanto da non produrre più il latte per alcuni giorni, tirà su \ no da dó pì al late.

Lo svezzamento avveniva dopo un mese circa. Durante tutto questo periodo, era importante evitare che il vitello mangiasse paglia o altro che raccoglieva a terra e perciò spesso si ricorreva ad una museruola. La difficoltà maggiore nello svezzamento era abituare il piccolo a bere il latte da un secchio. Prima dell'arrivo dei biberon si usava far succhiare al vitello un dito della mano che piano piano veniva immerso nel secchio con il latte; l'operazione ripetuta più volte doveva portare il vitello a bere da solo. Infine il latte materno era gradualmente diluito con l'acqua o sostituito con latolo, latte artificiale, fino ai primi pasti di fieno.

Se il vitello era maschio veniva venduto al macellaio dopo circa venti giorni. Raramente era allevato come toro da vendere alle vicine monte taurine. La vendita del vitello rappresentava una delle poche occasioni di guadagno e molte famiglie erano costrette ad attendere quel momento per fare acquisti o preparare il corredo per i figli.

Se si trattava di una femmina di solito veniva allevata per venderla nelle fiere o tenerla in stalla par fèi l giro co le bestie, per rinnovare le bovine ogni due anni e mezzo circa.

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