Il ladino cadorino nelle attività rurali.

Le attività pastorali in Centro Cadore. Un percorso etnografico.

1.6 Le malattie di bovini e la loro cura

Dalle notizie raccolte tra gli informatori pare evidente che il ricorso al veterinario per la cura delle malattie più gravi fosse cosa abbastanza diffusa, anche se spesso venivano prima tentati dei rimedi casalinghi. Una delle malattie più temute era la mastite, la malatia che le ciapa tel uro, un'infezione batterica alle mammelle che rendeva 'inutile' l'animale poiché il suo latte doveva essere eliminato. La mastite sembra essere stata una delle malattie più diffuse, anche perché con questo termine veniva indicato un generico stato di alterazione delle mammelle. La mastite poteva insorgere a causa di una mungitura eseguita frettolosamente, per cui parte del latte non veniva completamente estratto e il permanere di residui provocava l'insorgere di germi [137]. Particolarmente delicata, in questo senso, era la mungitura dopo il parto quando l'animale si trovava in uno stato generale di debolezza. La malattia poteva colpire tutta la mammella o solo un quarto; i sintomi erano inequivocabili: rigonfiamento e indurimento delle mammelle le fa na parte dura, il latte che scendeva poco scorrevolmente e a grumi no vién dó l late e l fa gropo e la mungitura che risultava dolorosa e procurava irrequietezza dell'animale. Le cure in passato prevedevano l'attenta pulizia della parte con acqua e una vigorosa insaponatura con sapone bianco. La schiuma ottenuta doveva essere lasciata riposare per alcuni minuti e poi risciacquata; la mammella doveva essere infine ben asciugata. Venivano inoltre applicati impacchi di malva e in tempi più recenti di ittiolo. Per facilitare lo scorrimento del latte, venivano introdotte nei capezzoli delle penne di gallina, le quali permettevano l'apertura del condotto mammario a volte infiammata. Si tratta di una pratica non priva di rischi, come riferisce un informatore, poiché la penna poteva ulteriormente peggiorare l'infezione o lacerare i tessuti.

- La pita i taièa la …piuma, l é un toc così con l bus in mezzo, alora se taièa cuela e alora se betèa su cuela. Bisogna sta atenti se no la ruèa te la mamela, bisogna sta atenti, apena finì tirala ndrìo. Se dorèa cuel n òta da vecio.

D. Se usèelo anche disinfetà n tin così?

- Éh sì, per forza. Presenpio una mastite, adesso i veterinari i fa punture, i à tuti i mezi, éro, n òta punture no i farèa. Però su le mastiti noi se adhoperèa pì parte bagni de sapone bianco.

D. De marsilia.

- Éro sì, e dopo se lassèa che la schiuma come na barba la se lasse riposar. E pò se fa gli inpachi dhó volte al giorno e se sugava che viéne suto. Dopo era la roba che de béte su, adesso ultimamente, l é come …La va via da G., lui adhopera tanto.

D. Le canete?

- Le canete, eco. Ma alora da vecio cuan che era la mastite ienèa messo su ste robe de le pite e se lavèa col saòn, e dopo se tirèa dhó in modo che iene fòra l late ah, ala capio? ma , ma dopo é ienù che se farèa…Pre senpio noi na volta, èro, par i …par le bronchiti, parchè le dhèa a la fontana anche d inverno a bevarar, anche su a Vigo ònde che era l municipio era na fontana, a sta staion cua i bacane là de Vigo, i molèa le vache. De modo che se i ciapèa la polmonite..alora cosa farèili? O le , le i dava dhó n pèr de litri de vin bianco, éro. Parchè cuando che le ciapèva la polmonite no le…per de litri de vin bianco. I metéa del ferume, del polvere de fién, prima i lo scaldava e dopo i lo metèa tel saco e i lo betèa su la schiena, ala capio? Era dute medhesine fate così, ades é duto diferente

D. E nveze cuan che no le avèa...no le rumièa?

- No le rumièa, anche lo stesso, là bisognèa far un decotto de radhìs anziana, una cipolla, noce moscata e reo barbero, se fava un litro de …de …boesta e cuela l era anche bòna, molto buona

D. E se darèa dhó co la botiglia?

- Co la botiglia, ala capio? Sì era òutro de far così ah, n òta. Ma adesso i à le medesine, pò ades i à i veterinari. [138]

Diverse erano le cause che potevano comportare una difficile digestione, no le rumia, tanto al pascolo che nel periodo di stabulazione. In questi casi i rimedi erano tradizionali e, nella sostanza, non differivano da quelli praticati anche agli uomini. L'erba curativa più diffusa era il decotto di radice di genziana, anthiana, somministrata all'animale mediante una bottiglia introdotta in bocca. Il decotto di genziana o di ginepro o malva veniva talvolta arricchito con una presa di sal canal, sale inglese o amaro che ha funzioni lassative. Una ricetta a base di genziana, riportata da un informatore, prevedeva inoltre l'aggiunta di cipolla, noce moscata, moscada, e rabarbaro, reo barbèro, il tutto bollito in un litro di acqua. La radice di genziana veniva inoltre somministrata dopo averla triturata in un boccone di polenta o altro. L'ingestione di erbe indigeste, erbe triste, o di eccessive quantità di erba fresca provocava anche fenomeni di forte meteorismo. La cura più efficace, oltre alla somministrazione dei già citati decotti o di bevande calde quali la camomilla, consisteva nell'introdurre per bocca o anche per il posteriore delle canete, sonde, per permettere al gas di fuoriuscire. Contro il gonfiore e per stimolare la diuresi veniva effettuato un decotto di barba dei pitói, gli stili delle pannocchie.

Le malattie legate alle vie respiratorie erano frequenti, soprattutto durante l'inverno quando gli animali venivano fatti uscire dalla stalla per l'abbeveraggio alla fonte; il brusco abbassamento della temperatura dalla stalla all'aperto e la somministrazione d'acqua gelida potevano causare influenze o polmoniti, malattie associate ad una serie di sintomi simili a quelli che colpiscono gli uomini. Le cure consistevano in somministrazione di bevande calde e decotti delle erbe più comuni, come malva, camomilla ecc., con l'applicazione, sul dorso dell'animale, di sacche di stoffa calde contenenti malvan, polvere del fieno. Le mucche, come le pecore e le capre, erano soggette ad infezioni ai piedi, che comportavano gonfiore e difficoltà nella deambulazione. Le cause principali di questo malore erano la scarsa igiene degli zoccoli e la presenza di umidità. La pedagna, come viene chiamata questa malattia, colpiva più spesso i bovini durante l'alpeggio ed era curata, dai pastori stessi, pulendo lo zoccolo da eventuali sassolini o altro e fasciando il piede dopo avervi applicato resina di larice, areà.

L'afta epizootica è ricordata dagli allevatori come una delle malattie più pericolose e rovinose. Spesso, anche dopo le cure più moderne, l'animale colpito da questo morbo infettivo doveva essere tirà\òu fòra, ucciso. Molti informatori riferiscono che i vecchi, un tempo, sostenevano che la malattia fosse comparsa in Cadore in seguito all'arrivo di animali infetti portati dai soldati, durante la prima guerra mondiale e che prima fosse del tutto sconosciuta. I sintomi della malattia erano inequivocabili e per curarla si ricorreva sempre all'intervento del veterinario. La terapia migliore, in mancanza di veri e propri medicinali come gli antibiotici, era un'accurata e attenta disinfezione della stalla e dell'animale, nonché l'isolamento dei soggetti colpiti. La bocca e i piedi, le parti più colpite e dove più frequentemente comparivano le afte, venivano pulite e disinfettate con aceto. Per la disinfezione dell'ambiente si ricorreva all'uso della calce viva, ciàuthina\ciòuthina, di cui si cospargeva il pavimento della stalla e i dintorni. Non sempre le cure erano efficaci e dipendevano spesso dalla tempestività con cui la malattia veniva diagnosticata.

Bevande calde o rinfrescanti, decotti ed infusi di erbe comuni erano somministrate agli animali in diverse occasioni. Dopo il parto una buona dose di caffè caldo, talvolta con un goccio di grappa, era considerata d'aiuto alle mucche per riprendere le forze dopo la stremante fatica. Al ritorno dall'alpeggio, per l'affaticamento dovuto al lungo viaggio, veniva somministrata una tisana di malva rinfrescante, sulle ferite più lievi venivano applicate foglie di bardana, slavath.

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